Catania Pride 2008 - 5 luglio

31 dicembre 2006

La Catalogna d'inverno - 2

Tiò tiò,
Caga turrò
D’aquell tan bó
Si no en tens més
Caga diners
Si no en tens prou
Caga un ou


Il che, in catalano, vorrebbe dire più o meno: “Tronco, tronco / caga torrone / di quello tanto buono / se non ne hai più / caga soldi / se non ne hai abbastanza / caga un uovo”. È una specie di filastrocca che i bambini catalani cantano la notte della vigilia di Natale, mentre con un bastone picchiano el tiò, cioè un essere immaginario che in realtà è un tronco nascosto con una coperta. Questa tradizione va sotto il nome di fer cagar el tiò (far cagare il tiò).
Alcuni giorni prima di Natale, da qualche parte in casa (generalmente vicino al caminetto, quando esiste) compare el tiò. Ogni notte, prima di andare a dormire, i bambini gli lasciano accanto qualcosa da mangiare: una mela, biscotti,... La mattina ritroveranno solo i resti di queste cibarie, segno che il tiò ha mangiato. Prima o poi, però, il tiò deve defecare e la notte di Natale sembra essere il momento più adatto per stimolarlo in tal senso. È allora che i bambini lo picchiano con un bastone, invocandolo con la cantilena che avete appena letto. Regola importantisima: non è possibile sollevare il manto che ricopre questa creatura fantastica, prima di aver lasciato la stanza per andare a risciacquare la punta del bastone in un secchio che gli adulti avranno provveduto a collocare in una parte della casa sufficientemente distante da quella in cui si trova il tiò. Quando i bambini tornano vicino al tiò, lo scoprono e trovano i frutti dei suoi sforzi: non giocattoli o oggetti di valore, ma solo dolci tipici del periodo natalizio. I regali grossi – non solo i catalani, ma tutti gli spagnoli – li ricevono il giorno dei reyes, i re Magi, il sei gennaio. L’operazione per far defecare il tiò può essere ripetuta più volte, fino a che non evacua carbone: quello è il segnale che non gli scappa più, i bambini allora si mettono l’animo in pace, la festa è finita.
Ah, prima che me lo dimentichi: buon 2007!

Continua. Precedente: 1.

30 dicembre 2006

La Catalogna d'inverno - 1

T. e J. abitano in un piccolo paese della Catalogna, in una casa degli anni Trenta costruita lungo una strada che, durante gli ultimi giorni della Guerra Civile, ha visto sfilare i sostenitori della Repubblica quando questi furono costretti a rifugiarsi in Francia per sfuggire al nascente regime del caudillo Francisco Franco. Partivano a piedi, portando con sè i pochi beni che potevano trasportare. Nella soffitta di questa grande casa, J. ha ritrovato, nascosto fra le travi, un sacchetto di pesetas di vecchissimo conio, risalenti appunto all'epoca repubblicana. Siccome suo nonno ospitava proprio in quella soffitta i fuggiaschi, dando loro un riparo per la notte, si presume che qualcuno, prima di addormentarsi, abbia lasciato proprio lì i soldi che aveva addosso, dimenticandoli al momento di partire, il mattino seguente.
È in questa casa, ancora circondata dalla campagna, ai bordi del piccolo paese, che io e Staou abbiamo stabilito la nostra dimora per la piccola vacanza catalana. L'affetto e il calore col quale T. e J. ci avvolgono ogni volta che veniamo qui, non finisce mai di sorprendermi. Siamo arrivati ieri e, dopo pranzo, siamo subito andati a visitare uno dei pochi monumenti che non ci hanno ancora mostrato, cioè la Canonica di Santa Maria di Vilabertran, un tempo abitata dai monaci agostiniani. Iniziata nel 1200, è stata successivamente ampliata fino al XVIII secolo.
Piatto forte della cena di ieri: una semplice ma sorprendentemente saporita sopa de pan, preparata dalla madre di T. Finito il pasto, insieme ad alcuni amici di T. e J. (C., E. e A.), siamo poi andati ad ascoltare il Requiem in re minore di Mozart, eseguito e cantato nel Monastero di Sant Esteve a Banyoles. È stato un momento davvero emozionante e gradevole, per giunta gratuito... Poi, stanchi del viaggio e abbastanza infreddoliti – la Catalogna “gode”, in questo periodo, di una notevole escursione termica – ce ne siamo andati a letto.
Il sole è rimasto con noi anche oggi, il tempo era ideale e così la visita che abbiamo fatto questa mattina alla Fortezza di Sant Ferran, a Figueras, non poteva andare meglio. Generalmente le fortezze non destano più di tanto il mio interesse anzi, mi mettono una certa tristezza. Sarà stata la guida, che era una ragazza particolarmente vivace e simpatica, o il luogo, che era veramente impressionante, fatto sta che ce la siamo goduta un sacco. Pare che si tratti della più grande fortezza d’Europa, costruita a partire dal 1753 su una superficie di 320.000 metri quadrati (il perimetro misura più di tre chilometri) per ospitare quattromila persone. Una vera e propria cittadella militare, le cui parti più interessanti sono le immense stalle, le gallerie di difesa sotterranee e le enormi cisterne che abbiamo esplorato a bordo di un canotto.
Una piccola parte della Fortezza di Sant Ferran, in tempi più recenti, era adibita a caserma e a carcere militare. In effetti è proprio al primo piano di un piccolo edificio all’interno di quel grande complesso, che trovò posto il tenente colonnello Tejero, quello del tentato golpe del 23 febbraio 1981.
Ora siamo (o meglio loro sono) in pausa, cioè impegnati nell’immancabile siesta. Per pranzo la madre di J. ci ha preparato un piatto tipico di queste parti, Escudella i carn d’olla, cioè un delizioso brodo ricavato da alcune verdure e differenti tipi di carne, che poi si mangiano a parte: pollo, pelota (polpettone), butifarra (sanguinaccio), maiale.

28 dicembre 2006

La Spagna fa i conti col suo passato franchista?

Ci sarà un risarcimento per le vittime della repressione antiomosessuale del regime di Franco in Spagna? Pare proprio di sì, stando alle ultime notizie che giungono dalla penisola iberica. I membri dell’Associazione degli ex prigionieri “sociali” ha annunciato di aver incontrato in questi giorni tutti i gruppi parlamentari, eccetto quello del Partido Popular (destra) che ha rifiutato di riceverli. Nei colloqui è stato evocato il problema del risarcimento materiale di quegli e di quelle omosessuali che, durante la dittatura franchista, hanno subito il carcere, la tortura e l’allontanamento dalla propria città natale a causa del proprio orientamento sessuale.
Un primo passo, se non altro simbolico, era già stato compiuto il 15 dicembre 2004, quando l’intero parlamento aveva approvato una dichiarazione nella quale si conferiva “un riconoscimento pubblico a tutte le persone che durante il regime franchista patirono le persecuzioni e il carcere a causa del loro orientamento o della loro identità sessuale e le cui sofferenze non sono mai state riconosciute fin qui”. Una delle più alte istituzioni del paese equiparava allora esplicitamente, per la prima volta e in modo ufficiale, la persecuzione subita da gay e lesbiche da una parte e quella degli oppositori politici del franchismo dall’altra. La novità di questi ultimi giorni è che il Governo presieduto da Zapatero sembra intenzionato a elargire anche un risarcimento materiale: si parla di una pensione mensile di 750 euro al mese e un indennizzo di 12000 euro. A poterne usufruire oggi sarebbero rimasti più o meno in cento. Tuttavia furono quattromila coloro che, sotto la dittatura, pagarono sulla loro pelle gli effetti della legge sui “vagos y maleantes” (asociali e delinquenti, 1954) e di quella sulla “peligrosidad y rehabilitación social” (pericolosità e riabilitazione sociale, 1970), norme volute espressamente dal franchismo per reprimere, tra le altre cose, l’omosessualità. Ma è una stima per difetto: molte volte, infatti, l’accusa per gli omosessuali era la prostituzione.
“Alla prigione di Barcellona” – racconta un ex prigioniero omosessuale al quotidiano El País – “mi inviarono in un padiglione di minorenni invertiti”. Rampova, la cui prima incarcerazione risale a quando aveva quattrodici anni, continua: “I detenuti pagavano le guardie per intrufolarsi e violentarci. Dopo ci bastonavano per dimostrare che loro non erano gay. Venivano cinque, sei volte al giorno. Talvolta anche otto”.
Beffarda anche la sorte di Antonio Ruiz, presidente della Asociación Ex-Presos Sociales. Siamo nel 1976: Antonio ha diciassette anni, il caudillo è già morto, ma il processo di democratizzazione della Spagna è appena agli esordi; le leggi repressive contro l’omosessualità sono ancora in vigore. Il 7 marzo di quell’anno, Antonio decide di parlare apertamente della propria omosessualità in famiglia. Purtroppo sua madre ha la pessima idea di riferire tutto a una suora ed è quest’ultima che, essendo un’informatrice della polizia, racconta quello che sa gli agenti. Questi piombano in casa di Ruiz un mattino verso le sei, lo prelevano e lo rinchiudono nel carcere di Badajoz, dove stanno i “passivi” (per gli “attivi” è in funzione la prigione di Huelva mentre le lesbiche vengono rinchiuse in manicomio). Nessun processo, nessuna possibilità di difendersi.
Quando finisce il carcere, per tutte e tutti loro la pena continua: come trovare un nuovo lavoro e tessere di nuovo relazioni sociali, infatti, quando pesano sul proprio passato non solo dei traumi così forti ma anche dei precedenti penali così infamanti? Ecco perché l’Asociación Ex-Presos Sociales si batte oggi anche per la cancellazione definitiva di quei precedenti. Non è certo una questione di vendetta, ma di dignità, di giustizia. E di memoria storica.

Fonti: Asociación Ex-Presos Sociales, Congreso de los Diputados, El Mundo, El País, Nueva Línea.

27 dicembre 2006

Sei mesi per Almalak

Alla fine è stato condannato. Sei mesi di prigione per atti osceni in luogo pubblico e prostituzione, un’accusa che molto probabilmente ne nasconde un’altra, quella di omosessualità.
È la sorte toccata a Naser Saidik Almalak (o Almalek), segretario dell’associazione gay albanese. Sulla sua vicenda avevo già scritto un post il 14 settembre 2006.

Fonte: AGI, via Gaynews.

24 dicembre 2006

Papata 12 - Auguri, finocchi!

Gli auguri di Papa Ratzi non sono per me. Questo è logico, dal momento che sono irrimediabilmente ateo. Sono per i gay e le lesbiche credenti, che sapranno essergli riconoscenti. E sono per lo Stato italiano, per il Governo e il Parlamento in particolare, che sul tema ha già dimostrato tutta la sua sensibilità.

“Diventa così uguale il mettersi insieme di un uomo e una donna o di due persone dello stesso sesso. Con cio vengono tacitamente confermate quelle teorie funeste che tolgono ogni rilevanza alla mascolinità e alla femminilità della persona umana, come se si trattasse di un fatto puramente biologico; teorie secondo cui luomo, cioè il suo intelletto e la sua volontà, deciderebbe autonomamente che cosa egli sia o non sia. C'è in questo un deprezzamento della corporeità, da cui consegue che l'uomo, volendo emanciparsi dal suo corpo - dalla ‘sfera biologica’ - finisce per distruggere sè stesso”.

Era l'augurio di Buon Natale firmato Benedetto XVI. E siamo alla dodicesima.

Fonte: Rainews24.

22 dicembre 2006

Algerino e gay? Se ne deve andare

Un gay algerino di appena diciotto anni, Karim (il nome è inventato), sarà espulso dal territorio francese e rispedito in Algeria. È quanto ha stabilito questo pomeriggio la Corte d’appello di Bordeaux, confermando l’ordinanza di espulsione emessa dalla Prefettura della Gironda il 31 agosto scorso.
La storia di Karim comincia quando aveva sedici anni. Stanco delle minacce e dei maltrattamenti che subisce in famiglia e nella sua città natale, Karim decide di stabilirsi a Bordeaux e di andare a vivere con gli zii francesi. Nella grande città, Karim si integra in fretta e bene, s’iscrive al liceo e studia con profitto. Quando però sollecita la Prefettura per ottenere un titolo di soggiorno, questo gli viene negato. Immediatamente dopo, riceve un’ordinanza che gli ingiunge di lasciare il territorio francese e lo obbliga a essere riaccompagnato in Algeria. È il 31 agosto di quest’anno.
La prima svolta, in questa vicenda, arriva neanche due settimane dopo: il 12 settembre il Tribunale amministrativo di Bordeaux annulla l’ordinanza, perché il prefetto – così si legge nella sentenza – ha commesso un “palese errore nell’apprezzare le circostanze”. Secondo il prefetto, infatti, l’omosessualità di Karim sarebbe stato solo un pretesto per lasciare l’Algeria, ma non un buon motivo per restare sul suolo francese. Il ministro dell’Interno, Nicolas Sarkozy, già impegnato, da candidato della destra alle presidenziali del 2007, in una dura campagna anti-immigrazione, sollecita allora il prefetto a presentare ricorso contro la decisione del Tribunale amministrativo. Con l’obiettivo propagandistico dichiarato di 24000 immigrati da cacciare entro la fine del 2006, difficile che Nicolas Sarkozy si commuova per un algerino, gay per di più.
La reazione delle associazioni glbt francesi non si fa attendere. Insieme a svariati altri soggetti della società civile, queste promuovono infatti una petizione per chiedere la regolarizzazione di Karim e perché “sia rispettato, in ogni parte d’Europa, il diritto a veder riconosciuta la vita privata e familiare di tutti gli stranieri”.
Il 13 dicembre scorso, una settimana prima dell’udienza in appello, sono in molti, tra associazioni, esponenti dei Verdi e del Partito Socialista, a partecipare a Bordeaux alla manifestazione di sostegno a Karim, un patrocinio simbolico chiamato parrainage républicain. “Spero che questo patrocinio lo protegga un po’ di più” – dichiara in quell’occasione l’attrice Josiane Balasko, che si è offerta di fare da “madrina” a Karim – “e che questa mobilitazione permetta di fermare l’accanimento amministrativo [contro di lui], affinché possa continuare a studiare e a vivere in Francia”.
La tanto attesa udienza in appello si tiene martedì 19 dicembre. Mentre l’avvocato di Karim, Pierre Landete, ricorda alla corte la giovane età del suo assistito (per la legge algerina è ancora minorenne) e la sua omosessualità, il commissario governativo respinge entrambe le argomentazioni: Stéphane Moulin replica infatti che Karim è maggiorenne secondo le leggi francesi, che “nessun documento prova le sevizie e niente permette di attestare che ha subito delle minacce”. L’omosessualità di Karim, al quale già il prefetto ha chiesto di portare le prove tangibili del suo orientamento sessuale – chissà poi in che modo! – viene messa nuovamente in dubbio anche dal commissario governativo, secondo il quale la presenza in aula del compagno di Karim, Dorien (anche il suo nome è inventato), non prova alcunché.
E così si arriva a oggi, giorno nel quale ogni speranza su una positiva soluzione del caso svanisce. Intorno alle 16,30 l’associazione Lesbian & Gay Pride Bordeaux dà l’annuncio che la Corte amministrativa d’appello ha deciso di bocciare la sentenza di primo grado e di confermare l’ordinanza di espulsione per Karim. A nulla è quindi valso sottolineare i rischi che quest’ultimo correrà non appena sarà atterrato in Algeria: va infatti ricordato che il codice algerino prevede fino a tre anni di carcere per omosessualità. Anche la tempistica scelta dalla corte per rendere il proprio verdetto, non sembra lasciata al caso: da questa sera cominciano le lunghe vacanze natalizie e per le associazioni glbt francesi e quelle impegnate sul fronte dell’immigrazione sarà molto più difficile organizzarsi per contrastare l’esecuzione del provvedimento.
La prima reazione alla decisione della corte è stata quella del “padrino” di Karim, Matthieu Rouveyre, consigliere comunale di Bordeaux: “Sono molto sconfortato” – ha dichiarato alla rivista Têtu – “ho le lacrime agli occhi. Non è possibile fare questo a un ragazzo nella sua situazione. Resisteremo e utilizzeremo tutta la nostra collera per far sì che Karim resti qui. Troveremo una soluzione, non possiamo lasciarlo partire”.
Mentre una riunione improvvisata dei sistenitori di Karim si sarebbe dovuta tenere questa sera a Bordeaux intorno alle 19,30, l’Inter-LGBT – comitato che federa gran parte dell’associazionismo gay, lesbico, bisessuale e transessuale francese – ha emesso un duro comunicato nel quale ricorda che Karim “non ha nessun’altra vita familiare se non quella che conduce con i suoi zii e il suo compagno. Se fosse espulso verso l’Algeria, sopravviverebbe a stento, si ritroverebbe senza risorse, senza famiglia per accoglierlo, abbandonato in strada. Al di là del dibattito giuridico che certamente proseguirà davanti al Consiglio di Stato e – se necessario – davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo, l’Inter-LGBT chiede per l’ultima volta al ministro dell’Interno di dar prova d’umanità e di mettere fine all’inferno psicologico vissuto da Karim, sospendendo l’espulsione e riconoscendogli il diritto di vivere la propria vita accanto ai suoi cari”.

Update (25 dicembre 2006). L’attrice Josiane Balasko, “madrina simbolica” di Karim, nella notte del 23 dicembre scorso ha annunciato di aver avuto due colloqui telefonici con Nicolas Sarkozy. Il ministro dell’Interno ha assicurato che Karim non sarà espulso e la sua situazione sarà regolarizzata. Non possiamo che gioirne, mentre il nostro pensiero va ora a tutti quelli e a tutte quelle che non hanno avuto la fortuna di poter godere dell’attenzione del mondo dello spettacolo e dei media.

Fonti: Inter-LGBT, Lesbian & Gay Pride Bordeaux, Libération, Pourkarim.net, Têtu.

La dolce morte in Francia

Il caso di Welby è riportato oggi da tutta la stampa francese. In particolare Libération nota che “mentre la maggioranza di centro sinistra già si divide sul disegno di legge sui Pacs, la morte di Piergiorgio Welby rischia di approfondire le tensioni tra i ministri cattolici e il campo laico, incarnato tra gli altri dal Partito radicale”.
Penso che dovremmo ringraziare Welby, se non altro per il coraggio con il quale ha saputo porre il problema dell’assenza di norme sull’eutanasia. Purtroppo non nutro alcun dubbio sul fatto che di qui a qualche giorno, sopite le polemiche, la vicenda sarà dimenticata e le belle promesse gettate alle ortiche.
Intanto Libération segnala che, se lo stesso caso si fosse presentato in Francia, il medico che ha interrotto il funzionamento del ventilatore non incorrerebbe in nessuna sanzione, grazie a una legge votata il 12 aprile 2005 e approvata all’unanimità dall’Assemblée Nationale, la quale stabilisce che: “Quando una persona, in fase avanzata o terminale di una malattia grave e incurabile, qualunque ne sia la causa, decide di limitare o di interrompere qualsiasi trattamento, il medico rispetta la sua volontà dopo averlo informato delle conseguenze della sua scelta”. Se invece la persona non è in grado di esprimere il proprio consenso, spetta ai medici la decisione di interrompere i trattamenti.
La legge francese stabilisce anche che “qualsiasi persona maggiorenne può redigere delle direttive in anticipo nel caso in cui si trovasse un giorno incapace di esprimere la propria volontà. Queste direttive indicano i desideri della persona relativi alla fine della sua vita riguardanti le condizioni di limitazione o interruzione dei trattamenti. Esse sono revocabili in qualsiasi momento”. Il medico deve tenerne conto, a patto che siano state redatte tre anni prima della perdita di coscienza.
In ogni caso l’ordinamento in Francia esclude che si possano compiere gesti che provochino attivamente e direttamente la morte del paziente.

21 dicembre 2006

Il dibattito negato

Ancora qualche nota a margine del dibattito – più che altro un’azzuffata – di questi ultimi giorni sul tema dei PaCS. L’offensiva più insidiosa, questa volta, non viene dai soliti settori clericali dell’Unione, ma dal segretario del principale partito sedicente di sinistra, i DS. E, subito dopo l’immotivata presa di posizione di Fassino contro le adozioni da parte di coppie formate da gay e lesbiche, è arrivato l’ignobile pezzo di Passigli sull’Unità, raro esempio di malafede e disonestà intellettuale, la cui lettura è vivamente consigliata prima di avventurarsi in queste mie note (un po’ sconnesse, e me ne scuso).
Cerco di elencare a quali scopi miravano, secondo me, in maniera più o meno consapevole, le affermazioni di Fassino e quelle di Passigli, rilasciate a breve distanza l’una dall’altra.

1) Far credere all’opinione pubblica che, se una legge sulle unioni di fatto ancora non è stata elaborata, la colpa è da imputarsi non già alle ingerenze vaticane negli affari italiani, bensì all’“ala oltranzista del movimento gay”, la quale “insiste per ottenere anche [...] il riconoscimento alle coppie omosessuali del diritto di adozione”. Peccato che l’argomento non sia neanche stato sfiorato dal movimento lgbt italiano, vuoi per senso di opportunità, vuoi per pusillanimità e subalternità alla classe politica. Ma questo, ovviamente, non lo sa nessuno e così l’idea del divide et impera può trionfare: da una parte i gay cattivi che domandano l’impossibile (sì, d’accordo, l’hanno fatto persino in Spagna, ma basta chiamarla “deriva zapateriana” per tappargli la bocca) e dall’altra quelli buoni che se ne stanno zitti ad aspettare tutto ciò che il convento passa, anche una legge svuotata di ogni senso; da un lato i gay che stracciano la tessera dei DS, dall’altro quelli che se ne guardano bene, forse avendo un piccolo conflitto d’interesse rispetto alla carica che occupano; da una parte i “compagni gay” e dall’altra gli/le etero, che si vedono privat* del loro diritto ad ottenere un istituto più leggero del matrimonio, a causa di questa banda di scalmanati e di scalmanate che chiederebbero più di quanto a loro spetti.

2) Rassicurare una volta di più i futuri partner del Partito Democratico (Cristiano) sul fatto che gli alleati della sedicente sinistra sono pronti a far valere le ragioni dei cattolici nell’ordinamento italiano, sacrificando così il principio di laicità dello Stato. Non è un caso che, secondo Passigli, solo lasciando libertà di coscienza ai parlamentari DS per quanto riguarda la legge sui PaCS – non è nemmeno stata scritta e già si danno indicazioni di voto, un record! – “si potrà sperare di non porre un macigno insormontabile sulla via già così problematica del Partito Democratico”.

3) Definire e delimitare con accuratezza l’ambito nel quale i differenti attori interessati a questa riforma potranno muoversi. Si potrà parlare al massimo di qualche riconoscimento di diritti individuali, ma non di quelli delle coppie formate da persone dello stesso sesso, e tantomeno della ridefinizione giuridica dell’idea di “famiglia”, che per Passigli è solo quella “ove siano presenti ruoli consolidati non solo dalla natura ma anche socialmente quali quelli di ‘padre’ e ‘madre’”. Davvero un peccato che “natura” voglia dire poco o niente, che sia solo un concetto falsamente oggettivo, dietro il quale si celano ben più soggettivi pregiudizi omofobi, meno facili da esprimere apertamente – a meno di non avere la faccia di Calderoli. E peccato anche che i ruoli di “papà” e “papà” insieme o di “mamma” e “mamma” insieme, contrariamente a quanto ritiene Passigli, siano già “consolidati socialmente”, dal momento che gay e lesbiche non aspettano certo la legge e ancor meno la legittimazione del primo ex senatore diessino che capita, per poter procreare.

Il punto più inquietante mi pare proprio quest’ultimo. Io mi sento non solo offeso da tanta crudeltà e ipocrisia, ma mi trovo anche schiacciato in una posizione che, se il dibattito avesse preso una piega minimamente democratica, non assumerei. Io rivendico tutto il diritto di discutere di apertura del matrimonio tra persone dello stesso sesso, di adozioni e di omogenitorialità (sottolineo: di discutere). Perché mi deve essere impedito di partecipare con serenità a un dibattito dove tutte le posizioni possano essere rappresentate, quelle di chi su questi temi è favorevole e quelle di chi è contrario?
Se gli esponenti dei DS (ed una parte di Arcigay, storicamente vicina a questo partito) non avessero già ampiamente ipotecato questo dibattito, all’interno dello stesso movimento lgbt italiano queste contraddizioni potrebbero emergere e dar vita ad un confronto positivo, a momenti di discussione autentica – e non di principio – per giungere infine a un momento di sintesi. Quello che invece accade oggi è che il movimento lgbt è costretto a inseguire, più male che bene, priorità politiche stabilite altrove, cercando di parare i colpi e di portare a casa – come il segretario nazionale di Arcigay, Aurelio Mancuso, ha anche scritto – “il minimo sindacale”. Guai a parlare di ciò che in altri stati europei è già divenuto realtà, questo è l’avvertimento di Fassino e Passigli al quale, ahinoi, ci siamo già da molto tempo adeguat*.
Io invece sono tra quell* che credono che non sia il movimento a dover trovare un compromesso intorno a ipotesi “minimaliste”, perché alla mediazione già pensa la classe politica, che fa questo di mestiere. Al movimento spetterebbe piuttosto il compito di elaborare delle rivendicazioni forti, intorno ad alcuni punti centrali che possano essere condivisi, e questo solo dopo (non prima di) aver costruito un percorso comune tra le varie anime ed averne dibattuto.
È un’impressione del tutto personale e, come tale, più che opinabile, ma mi sembra che oggi il movimento lgbt italiano abbia toccato il fondo. Dopo il famoso compromesso al ribasso rappresentato dalle sette righine di programma dell’Unione sui PaCS, non si poteva immaginare uno scenario peggiore. Il futuro del movimento – e quindi quello di lesbiche, gay, bisessuali e transessuali italian* – dipenderà in larga misura dalla sua capacità di reagire agli attacchi provenienti da ogni parte e di costruirsi uno spazio di elaborazione e di azione politica totalmente autonomo rispetto ai partiti.

14 dicembre 2006

Il disastro dell'Unione. Chi sono i complici?

È ora di fare un bilancio, che ne dite? Ce lo impone un minimo di dignità, dopo non so più quante legislature passate a sbirciare con invidia quello che accadeva in altri paesi e a dirci: “Oh, quanto sono progressisti, loro!”. E a farci prendere in giro in patria.
Allora, riassumendo, che cosa si è ottenuto in questi giorni di vivace dibattito sui PaCS?
- L’estensione ai conviventi delle agevolazioni accordate in materia di successione alle persone sposate è stata ritirata dalla legge finanziaria. Ma in cambio dell’impegno a presentare un disegno di legge governativo sulle coppie di fatto, che diamine!
- L’ordine del giorno che impegnava il governo a presentare il suddetto disegno di legge entro il 31 gennaio 2007 è decaduto, visto che sulla legge finanziaria al Senato è stata posta la questione di fiducia, la quale ha questo “magico” ed assolutamente imprevedibile effetto. Come dice la Binetti, non c'è fretta. Del resto, saranno almeno dieci anni che aspettiamo...
- L’“Osservatorio per il contrasto della violenza nei confronti delle donne e per ragioni di orientamento sessuale” diventa, nella legge finanziaria che sta per essere approvata dal Senato, l’“Osservatorio nazionale contro la violenza sessuale e di genere”. Ops! Cosa manca?
- Fini si apre un varco a... sinistra (?!?) dichiarandosi favorevole all’approvazione di una legge sui PaCS alla Ceccanti, cioè svuotata di ogni contenuto serio (così almeno pare di capire, visto che non si vuole il riconoscimento pubblico dell’esistenza della coppia di fatto); Berlusconi si pronuncia per la libertà di coscienza. Il più lungimirante di tutti, però, è Fassino che, magari temendo che il Vaticano sia poco rappresentato sulla scena politica italiana, ha creduto fosse opportuno rendere nota la propria contrarietà all’eutanasia e all’adozione da parte di una coppia omosessuale, con queste viscide ed omofobe parole: “Non credo che sia una scelta che la società possa accogliere e neppure penso che sia utile per il bambino essere adottato e crescere con due persone dello stesso sesso”. E a lui chi gliel’ha detto? È forse un genitore omosessuale? È forse figlio di omosessuali?
Mai più un voto a questa banda d’ipocriti che scambiano i diritti di migliaia di persone sull’altare dei loro calcoli piccoli piccoli. Vista la ormai più che assodata incapacità del movimento, della società civile, di riportare la cosiddetta sinistra italiana al di qua del Tevere, io la lascio volentieri dove si trova, perché ho i conati di vomito.
Alle prossime elezioni, cari amici e amiche contrari* all’astensionismo, non venite di nuovo ad agitare lo spauracchio di Berlusconi perché per quanto mi riguarda non funziona più. Non voglio più essere complice del disastro che ci sta travolgendo.

Avanti, c'è posto!

Sono giornate di lavoro intenso, senza contare gli altri impegni. Mi affanno a finire una cosa e non ho nemmeno il tempo di osservare l’opera appena conclusa che già sono in un’altra faccenda affaccendato. Così le giornate scorrono quasi senza che io abbia il tempo per accorgermene.
Per fortuna esistono i conducenti della metropolitana. Sono gli unici a risollevarmi il morale al termine di giornate così dense. Passo una discreta quantità di tempo sui mezzi pubblici, in particolare nel metrò, e avevo già notato, ormai da qualche mese, che gli annunci si fanno sempre più colloquiali e lontani dalla freddezza amministrativa che li caratterizzava precedentemente. Così, per esempio, la banale comunicazione della chiusura della stazione successiva a quella nella quale si trova il convoglio sul quale state viaggiando, diventa qualcosa come : “Buonasera! Tengo a comunicarvi che la stazione Tale è chiusa per lavori e che quindi la prossima fermata sarà Talaltra. Mi scuso con voi per il disagio e vi auguro una buona serata”.
Ma ieri sera, in un’ora di punta e a bordo di un convoglio particolarmente affollato, il conducente della linea 1 ha superato se stesso.

- Buonasera! Ho notato che al binario c’è un cieco con il suo cane che sta aspettando di poter entrare. Vi prego di aiutarli a salire, lui e il suo cane, facendogli posto. Prego anche le persone che sono sedute sugli strapuntini di alzarsi e cedergli il posto.
Pausa.
- Inoltre, una quarta persona può venire qui con me in cabina!
Generali risate. Pausa.
- Non era una battuta...

Foto: Staou.

08 dicembre 2006

Ombrelli o arcobaleni?

Oggi a Parigi il barometro segna tempesta. Questa mattina sono uscito prestissimo, quando il sole non era ancora sorto, sotto una pioggia battente. Il vento soffierà a centodieci chilometri all’ora – ci hanno allertato i bollettini meteorologici. Si preannuncia un pomeriggio durante il quale sarebbe opportuno barricarsi in casa e mettersi sotto le coperte. Ovviamente non potrò farlo, se non altro perché ho appuntamento dal medico, la cui sentenza già prevedo: mi dirà che ho le tonsille infiammate e mi prescriverà i medicinali del caso.
In ogni caso, questa mattina ho collegato il maltempo che imperversa qui con un altro avvenimento, accaduto ieri. SacherFire raccontava in un suo post di aver visto l’arcobaleno. Quando? Verso le 16. Addirittura “il più bell’arcobaleno” che avesse mai osservato. E a me è venuto in mente che è proprio intorno alle quattro del pomeriggio, più precisamente alle 15,52, che l’ANSA ha battuto una notizia attesa da quasi un decennio, questa: “Entro gennaio norme sulle unioni di fatto”. Che i due avvenimenti siano collegati? Che l’arcobaleno sia apparso a SacherFire come un gaio segno premonitore o rivelatore di quanto stava accadendo qualche chilometro più a sud, nella capitale?
Per qualche attimo l’ho creduto, ma ora non ne sono più così sicuro. Intanto, va rilevato che quello approvato ieri è un ordine del giorno, cioè un documento votato dal Senato che impegna il Governo a presentare un disegno di legge sulle unioni civili entro il 31 gennaio 2007. Il problema è che quell’ordine del giorno nasce in seguito al ritiro di un emendamento alla legge finanziaria che avrebbe esteso anche ai conviventi i benefici in materia di successioni concessi alle coppie sposate. Si tratta dunque di un compromesso che è servito ad evitare che a una discussione sui PaCS si arrivasse immediatamente. Sappiamo bene che gli ordini del giorno possono essere anche disattesi dal Governo e che in ogni caso il contenuto di quel disegno di legge non è precisato dal documento. “Non osiamo pensare” – ha dichiarato ieri Franco Grillini, deputato dei DS e presidente onorario di Arcigay – “cosa potrà essere un ddl del Governo costretto a passare sotto le forche caudine degli implacabili ‘teodem’”. Appunto.
Leggo oggi su Repubblica che “il Professore ha escluso (e il programma dell'Unione non prevede) che ci siano anche in Italia veri e propri Pacs”. Non è dato sapere se, quando in Italia si parla di PaCS, ci si riferisca proprio ai contratti di solidarietà francesi, ma sarebbe bene chiarire, una volta per tutte, ciò che questi proprio non prevedono e cioè: la reversibilità della pensione e la successione automatica nella proprietà dei beni posseduti dal partner, in caso di decesso di quest’ultimo. Che cosa resterebbe, dunque, se si volesse approvare una normativa ancor più esigua, in materia di diritti, rispetto a quella in vigore in Francia? Poco più di un pugno di mosche, temo.
Ecco perché mi sembra che la battaglia sui PaCS, in Italia, sia appena cominciata. Proprio per questo non comprendo bene Sergio Lo Giudice, presidente di Arcigay, quando, in un comunicato peraltro molto duro sul ritiro del famoso emendamento, scrive: “confidiamo che la ministra per le Pari opportunità Barbara Pollastrini, a cui d’intesa con la ministra per la Famiglia Rosy Bindi è stato delegato questo compito [di redigere il ddl, n.d.a.], saprà avanzare una proposta adeguata a rispondere alla richiesta pressante che si leva dal paese reale”. Nient’altro? Che so, un’ampia discussione nel movimento e poi la mobilitazione di tutte le forze che si possono riunire intorno a questa battaglia? No: ci affidiamo, come al solito, alla classe politica, aggrappandoci all’unica cosa che sia stata in grado di partorire sino adesso e cioè sette righine di programma che più striminzite di così si crepa, e i veti della Margherita. Tanti auguri.
Insomma, se, come ha scritto ieri SacherFire, “nessuno si è accorto dell’arcobaleno”, non sarà un caso. In effetti io da qui vedo solo vento e pioggia. Prepariamo gli ombrelli.

01 dicembre 2006

Il mostro

All’inizio avrei voluto scrivere un post con molti dati, per mostrare qual è la situazione nel mondo e qui in Francia. Per parlare ancora una volta di aids, nel giorno in cui si celebra la lotta contro questa malattia. Invece mi sono messo a tradurre.
È da un bel po’ che seguo le roncier, un ragazzo gay che ha deciso qualche tempo fa di lasciare Parigi e stabilirsi a Toronto. Se ve la cavate col francese, vi consiglio di visitare il suo blog. Altrimenti, ecco uno tra i post che mi sono piaciuti di più, tradotto in italiano.


Alla fine niente cambia. Né la rabbia, né il dolore, né l’impossibilità di dire. Sono sul mio letto e dico a questo ragazzo che sono sieropositivo e lui guarda rapidamente verso la porta. Non l’ho immaginato quello sguardo, l’ho visto, proprio prima che tornasse alle mie labbra. Prima, mentre ballavamo, gli avevo detto: no, non posso, non voglio soffrire. Non aveva capito, la musica della discoteca era troppo forte. Mi sentivo bene, quella sera, mi sentivo bene perché sapevo di brillare. Talvolta succede, so di brillare, mi preparo prima di uscire e quando sono pronto so che sarà una di quelle serate, durante la quale dimenticherò i miei difetti e ciò che mi piace di me traspirerà dai pori della mia pelle.
Sei un ragazzo a posto, mi dice, tu fai attenzione agli altri. Che ne sai, gli rispondo. Non mi conosci. In effetti non vede me, vede lo Charles delle grandi sere, quello che brilla. Io non sono accecato. Non dimentico mai. E quando gli dico che sono sieropositivo, so che la festa è finita. E capisco che è questo che non voglio più. Quelle persone che pensano di non essere mai state a letto con dei sieropositivi, solo perché i sieropositivi che sono stati a letto con loro non hanno mai detto che lo erano. Quegli uomini che pensano ancora che possono vivere la loro vita come se l’aids non li riguardasse. Come la dottoressa mi ha detto l’ultima volta, a proposito di Mike, quando le ho confessato che vedevo chiaramente che lui panicava: eppure dovrebbe sapere che con queste percentuali tra gli omosessuali, ha già dovuto affrontare l’aids! Affrontare l’idea, forse, ma non affrontare un sieropositivo.
Questa volta, il ragazzo è rimasto; per qualche ora, in ogni caso. Cercherò di conservare i complimenti, quelli che comprendevano tutto il mio corpo, il mio sorriso, i miei capelli, le mie gambe, le mie labbra. Conserverò il nostro ballo e mi ricorderò che, quando voglio, posso ridiventare brillante. Che se non lo faccio più spesso, è per non dover affrontare questo tipo di momenti. Tenterò di non conservare in memoria quello sguardo verso la porta, so che non potrò.
Niente cambia. Quelli che non vogliono proteggersi non si proteggono e seguono dei trattamenti d’urgenza per far finta di prendersi cura di sè. Quelli che lottano per la prevenzione si domandano a cosa serve. Quelli che vivono con l’aids se ne stanno tutti soli con lui, comunque sia, e, in un romanzo romantico, io sarò il dannato, quello che vive solo e che non si aspetta altro dalla vita, quello che sarà sempre lontano dagli altri, senza nessuna possibilità di avvicinarsi, di conoscere ancora l’intimità. Il mostro. Ma non siamo in un romanzo. È solo una stronzata di malattia. Al sole, oggi, i miei capelli brillavano, come un’eco della notte scorsa e mi sento stranamente sereno. (le roncier, licenza CC)

Foto: Aids, dove sono i/le candidat*?, ActUp Paris.

23 novembre 2006

Pianeta Shortbus, la sessualità oltre il perbenismo

Però è indicativo, non siete d’accordo? Dico: il fatto che nelle sale di mezzo mondo stia circolando lo splendido film di John Cameron Mitchell, Shortbus, mentre in Italia ci si accapiglia intorno allo sceneggiato di Banfi, vorrà pur dire qualcosa. Saprà tanto di luogo comune, eppure le risate che ci seppelliscono quando all’estero diciamo che gli sceneggiati in Italia li chiamiamo fiction, non ci piovono addosso per una maledizione divina. Il fatto è che siamo una nazione che della modernità ha accolto solo gli aspetti più superficiali, e neanche quelli migliori. Di questi trompe-l’oeil nell’italico stivale ci si vanta, mentre dietro la facciata coltiviamo il marcio. Crediamo che sia sufficiente un po’ di belletto inglese per rifarci un trucco che tenga, ma basta qualche secondo, lo sguardo divertito di un francese (che i film per la tv li chiama téléfilms), perché la maschera crolli.
Allora, se posso darvi modestamente un consiglio, fateVI un favore: spegnete per qualche ora la televisione e lasciate Banfi, Binetti ed altri cosetti a bollire nel loro brodo. È arrivato finalmente anche in Italia il film più bello e interessante di quest’anno, forse anche degli ultimi anni. Andate al cinema a vedere anche voi quante riflessioni possono sorgere intorno alla sessualità, una volta abbandonata la propria rigidità mentale, il proprio bigottismo, il proprio oscurantismo.
Io ho visto Shortbus una decina di giorni fa in una sala piena ed entusiasta (27.217 spettatori nella prima settimana di programmazione a Parigi). Più che visto, sarebbe meglio dire “vissuto”, vista la grande partecipazione che suscita. Una grande boccata d’aria fresca e la sensazione che, attraverso la sessualità, fosse la vita stessa dei personaggi a essere messa in scena e che quegli attori e quelle attrici (molto spesso non professionisti), in realtà, fossimo noi: i nostri fantasmi, i nostri timori, le nostre barriere, ma anche l’ingegnosità con la quale ci sforziamo di superarle. Quando dico che è la nostra stessa esistenza che Mitchell mette in scena e scortica fino a mostrarci, con un’efficacia straordinaria, quanto in alto e quanto in basso donne e uomini possano volare, non parlo solo di lesbiche e gay. Parlo di qualcosa di ben più vasto, del genere umano e donnano*. Mi pare che la forza di Shortbus stia proprio nella rappresentazione di ciò che potremmo fare dei nostri corpi, del livello di comunicazione cui potremmo giungere, se soltanto fossimo sessualmente liberi, libere e consapevoli delle nostre potenzialità.
Della sessualità Shortbus considera molti aspetti: l’elemento ludico e divertente, quello ripetitivo e un po’ coatto, la ricerca di sé, la scoperta, il piacere, il dolore... È un film molto divertente e al tempo stesso serio, che non si limita a farci immaginare qualcosa d’inesistente, ma, con la sua forza, ci fa desiderare di realizzarlo. Vero è che una delle battute del film (che riporto citandola a memoria, quindi approssimativamente) dice: “Qui è come negli anni 60, però senza quella speranza”. Ma io ho sentito il film come un invito continuo a mettere in pratica le utopie che altri prima di noi non sono riusciti a concretizzare. Ci si può chiedere, semmai, se tutta l’energia creatrice espressa dalla sessualità in quel film, rimanga per il pubblico fine a se stessa oppure generi qualche frutto positivo. Se, insomma, uscendo dal cinema, ci portiamo a casa un pezzo di Shortbus e nuove idee, oppure se tutto tornerà come prima e rientrerà nei binari della quotidiana “normalità” (la parola che forse odio di più fra tutte). Se lo scopo di un film non è fare la rivoluzione, quanto piuttosto metterla in scena, a chi tocca questo compito?
D’accordo, ritorno sulla Terra, più precisamente in Italia, perché già sento qualcuno azzuffarsi sullo status da conferire a Shortbus: è porno oppure no? Il fatto che si vedano uccelli in erezione e che i rapporti eterosessuali come quelli omosessuali siano girati in modo assolutamente esplicito, può farlo rientrare “tecnicamente” – come è stato scritto – in quella categoria? Ma il fatto che siano messi in scena anche i sentimenti e che intorno alla sessualità si sviluppi un discorso molto profondo sulla nostra esistenza, non tenderebbe piuttosto ad escluderlo? Darei la risposta più semplice: e chi se ne frega! Per una volta che il sesso al cinema è rappresentato senza ipocrisia e che sullo schermo si realizza un convincente incontro tra l’ideale e il reale (il nostro vissuto), volete rovinarvi il piacere discettando su queste sciocchezze?
Qualcuno ci proverà (a rovinarvi il piacere, sciocche!). Anzi, ci è già riuscito: ad esempio, perché in Francia questo stesso film è vietato a chi ha meno di sedici anni e in Italia ai minori di diciotto? Perché la distribuzione italiana (la BIM) aveva previsto la diffusione di cento copie ma, constatato il rifiuto di molti gestori, si è rassegnata a farne uscire in sala solo sessanta? Ma è ovvio: perché gli italiani e le italiane amano la fiction, che domande!

* Se volete anche voi usare questo termine senza complessi, vi consiglio la lettura di Gert Brantenberg, Le figlie di Egalia (1977; Estro, 1992: chiedete al centro di documentazione glbt più vicino!).

Fonte: l’Unità via Gaynews (descrive la trama).
Siti ufficiali di Shortbus: americano, francese, italiano.

Aspetto i vostri commenti al film, sono molto curioso di sapere cosa ne pensate.

22 novembre 2006

E in Spagna, che si dice?

In Italia tutti hanno recitato la loro parte. Lino Banfi nel ruolo di padre comprensivo, le due attrici in quello delle novelle spose nella Spagna progressista di Zapatero e la destra italica che s’indigna perché alla televisione si osa mostrare “una parodia di matrimonio” che mette a repentaglio nientemeno che “il futuro della nostra società” (la perla è di Giovanardi, a ognuno il suo). Lesbiche e gay hanno inviato la doverosa letterina a mamma Rai, affinché non si azzardasse a mettere le mani su Il padre delle spose e a privare il matrimonio fra persone dello stesso sesso di un’adeguata rappresentazione in prima serata. Oggi la principale azienda “culturale” italiana sembra contenta dei sette milioni e passa d’ascolto, e anche di aver sollevato il tema: “Dei Pacs, dell'unione tra omosessuali, si discute nelle famiglie,” – dice Agostino Saccà, direttore di Rai Fiction – “non ci si può girare dall'altra parte”. Vero, è da un bel po’ che lo diciamo; stupefacente, semmai, che lo si capisca solo oggi.
Ma il siparietto non poteva essere completo, senza l’ennesima lacerazione del centrosinistra. Protagonista in commedia, anche questa volta, l’impagabile Binetti (Margerita) che, con parole da scolpire nella pietra tanto sono argute, ci avverte: “È altamente inopportuna una trasmissione che tocca un problema su cui ancora non si è discusso adeguatamente e che comunque non fa parte del programma di governo”. Vorrà dire che la prossima volta, prima di trattare un qualsiasi tema sociale, lo sceneggiatore avrà cura di consultare preventivamente Per il bene dell’Italia. Programma di governo 2006-2011. Chi lo sa che in qualche pagina dell’immenso ed altrimenti inutile tomo, non si trovi qualcosina sulla censura o sulla reintroduzione dell’Indice: ecco finalmente un soggetto per la Binetti!
In Spagna, invece, le poche reazioni sono compiaciute, oppure venate da stupore misto a malcelata ironia. Beatriz Gimeno, presidente dell’iberica FELGT (Federación Estatal de Lesbianas, Gays, Trasexuales y bisexuales), ha per esempio dichiarato: “Mi rallegro del fatto che inizino ad esistere fiction come Il padre delle spose, perché in Spagna hanno rappresentato il principio del cammino”. Non se ne abbia la Gimeno se osiamo mestamente ricondurla un attimo soltanto alla realtà, per dirle che purtroppo film del genere, dato il contesto italiano, costituiscono non solo l’inizio, ma anche la fine del dibattito. (Ricordate gli strombazzamenti quando la disciplina dei PaCS era stata finalmente calendarizzata per il mese di novembre 2006 alla Commissione Giustizia della Camera? Nessuna nuova buona nuova?).
E oggi, sul quotidiano spagnolo Ideal, il corrispondente Iñigo Dominguez, a proposito della fiction di Banfi, scrive di “una grande polemica, incredibile se vista da fuori ma che riflette molto bene come vanno le cose in Italia”. E ancora: “È molto simpatico il modo in cui la Spagna è presentata, un miscuglio di paradiso di perdizione e svariati altri stereotipi, dato che la sposa iberica in questione cucina paella e suona la chitarra”. Si tratta di “un vaudeville innocente e farcito di luoghi comuni,” – continua Dominguez – “che però centra in pieno un tema che è tabù a causa dell’onnipresente zampino del Vaticano nelle faccende italiane: l’accettazione dell’omosessualità”.
Ve lo immaginate il corrispondente di Ideal che scrive dalla capitale d’Italia (Europa)? Chi vi ricorda? La risposta è qui.

21 novembre 2006

Aggredito in pieno centro a Madrid

Contusioni multiple, ferite per arma da taglio sulla testa e il volto, vari punti a un orecchio, perdita temporanea della memoria e un bernoccolo nel punto dove la bottiglia di whisky lo ha colpito. Sono le conseguenze di un attacco omofobo occorso venerdì scorso, nel pieno centro di Madrid, a José Ignacio Pichardo, gay di 35 anni, colpevole di essersi retto al braccio del compagno mentre scendeva le scale all’ingresso della stazione del metro Príncipe Pío, vicino al Palazzo Reale.
La coppia era da poco uscita dal cinema quando improvvisamente tre ragazzi le si sono parati davanti, con l’aria di non gradire la vicinanza tra i due uomini – causata, peraltro, da un problema al tallone di cui soffre José. Prima li hanno insultati la grido di “froci, pagliacci!”, poi si sono gettati su José, malmenandolo. Solo quando il suo compagno ha estratto dallo zainetto il cellulare per chiamare la polizia, i tre si sono dati alla fuga.
José ha dichiarato ieri che i suoi aggressori non erano “né immigrati, né zingari, né skinhead, né appartenenti ad alcuna minoranza; che nessuno si sogni di giustificare l’attacco in questo modo. Se vogliono trovare il colpevole” – ha aggiunto lucidissimo – “pensino a quelli che, con i loro messaggi, provocano l’omofobia, come la Chiesa cattolica o il Partido Popular [la destra di Aznar, n.d.r.]”.
Quella di José – il quale, tra l’altro, è volontario all’associazione glbt COGAM e ha pubblicato un’inchiesta sull’omofobia nel sistema educativo – è solo l’ultima di una serie di aggressioni contro gay, lesbiche e trans spagnoli e spagnole. Come ricorda giustamente un comunicato della Federacion Estatal de Lesbianas, Gays, Transexuales y bisexuales (FELGT), “non basta legiferare per mettere fine a una discriminazione che dura da secoli: bisogna educare le coscienze. Bisogna insegnare il rispetto delle diversità ai futuri cittadini e alle future cittadine. Bisogna indicare nella differenza un valore positivo e non qualcosa da temere o odiare”.
E chi pensa che l'istituzione del matrimonio risolva di colpo tutti i problemi legati all’omofobia, è purtroppo servito.

Fino qui, tutto bene

Giusto due righe per dire che tutto è andato meravigliosamente bene. Alla prima del nostro documentario sul Fhar hanno assistito circa duecento persone, la sala era stracolma e molta gente ha dovuto rinunciare a entrare. Già durante la proiezione molti e molte hanno sottolineato alcuni passaggi con applausi o risate. Moltissimi i fischi contro Ségolène Royal, quando una delle femministe da noi intervistate ha ricordato che la candidata socialista, non proprio rivoluzionaria nell'ambito delle politiche familiari, si esprime ancora "in quanto madre" (a proposito: non ho ancora avuto tempo di farlo, ma prima o poi bisognerà pur commentare questo nient'affatto stupefacente innamoramento per Ségolène Royal di certa sinistra italiana).
Il dibattito alla fine è stato alquanto ridotto, anche perché la proiezione è cominciata con circa mezz'ora di ritardo (non esagero, credetemi, se parlo di un certo trambusto all'ingresso). In ogni caso le critiche che abbiamo ricevuto sono state molto positive e molte persone hanno persino tenuto a ringraziarci. È stata per noi una buona boccata d'ossigeno, dopo mesi di duro lavoro. Adesso andiamo avanti, sperando di poter dare a questo documentario la massima visibilità.

19 novembre 2006

La prima!

Ci siamo. Oggi Alessandro ed io presentiamo al Festival de films gays et lesbiens di Parigi il nostro documentario sulla storia del primo movimento omosessuale rivoluzionario francese, il FHAR, nato nel 1971 e morto per “autoconsunzione” sul finire del 1973. Una meteora, come è stata chiamata, sorta dall’incontro-scontro tra le istanze femministe sostenute dal Mouvement de Libération des Femmes e il militantismo dei gruppuscoli della sinistra extraparlamentare dell’epoca. Quel terreno fertile ha fatto sì che le danze potessero aprirsi anche per i “pédés” (froci) e le “gouines” (lesbiche) di Francia.
Abbiamo cercato di capire che cosa fosse il FHAR, attraverso le testimonianze di chi ha partecipato a quella avventura e gli archivi che di quell’epoca ci sono rimasti. A rivederlo oggi, questo Front Homosexuel d’Action Révolutionnaire ci appare come una creatura invero molto strana: un esplosivo miscuglio di gauchismo e paillettes, di discorsi rivoluzionari e di situazioni camp, di teorizzazione e di pratica politica, ma anche sessuale, quotidiana. Un gruppo di chiassosi travestiti (le Gazolines), eppoi quelli e quelle che ancora non si chiamavano transessuali, e ovviamente gay e lesbiche di ogni estrazione sociale, immigrati e francesi doc, si davano appuntamento ogni settimana all’Académie des Beaux Arts a Parigi, dove si svolgevano le riunioni più deliranti che l’estrema sinistra francese abbia mai conosciuto: assemblee, certo, alle quali seguivano però delle orge rimaste leggendarie. E dappertutto, nelle case private sparse in diversi quartieri della capitale, ma anche in provincia, i fharisti e le fhariste si ritrovavano per organizzare le uscite pubbliche, liberarsi e amarsi.
Da quella straordinaria fucina è scaturita la figura di Guy Hocquenghem, all’epoca giovanissimo intellettuale di formazione maoista, cresciuto alla scuola del filosofo René Schérer e destinato a diventare giornalista a Libération e brillante romanziere. È lui a pubblicare, influenzato da L’Antiedipo di Deleuze e Guattari, un’opera che rimane ancora oggi fra le più importanti per gli studi di genere e le teorie sorte intorno all’omosessualità o al “queer”: Le désir homosexuel. Il fatto che Hocquenghem abbia poi denunciato, talvolta in modo estremamente corrosivo, la sfacciataggine e l’arroganza di quegli ex sessantottini che hanno sacrificato gli ideali di gioventù alla loro carriera nel sistema socialista mitterrandiano, spiega, almeno in parte, il silenzio nel quale il pensiero e le opere di questo omosessuale rivoluzionario sono caduti dopo la morte, sopraggiunta per aids nel 1988.
L’altro grande personaggio del quale abbiamo voluto parlare è Françoise d’Eaubonne, scrittrice estremamente prolifica, femminista da sempre, presente sia all’MLF che al FHAR, morta nel 2005.
Siamo partiti chiedendoci perché oggi il FHAR, Guy Hocquenghem, Françoise d’Eaubonne, sono dimenticati dalla stragrande maggioranza dei gay e delle lesbiche francesi. Qual è stato il percorso che ci porta a essere i gay e le lesbiche che effettivamente siamo? La riflessione sul passato non è tuttavia disgiunta da un interrogativo sul presente, su quanto le lotte e le eventuali ambizioni del FHAR siano o non siano rimaste attuali. Mentre il movimento italiano e quello francese si domandano se preferire i PaCS o rivendicare piuttosto il matrimonio fra persone dello stesso sesso, che spazio può trovare nel 2006 l’affermazione di Françoise d’Eaubonne, secondo la quale non spetta alla società il compito di integrare gli e le omosessuali, ma agli e alle omosessuali quello di disintegrarla? Normalizzazione o, al contrario, cambiamento?
Cercare di comprendere il FHAR, per noi, significa quindi porsi queste domande e usare la storia anche come strumento d’interpretazione dell’oggi. Speriamo di essere riusciti a offrire un contributo in questo senso.

18 novembre 2006

La serata Canal Plus: film, alcol, paillettes

Giovedì scorso il Festival de films gays et lesbiens di Parigi ha ospitato la tradizionale serata organizzata da Canal Plus: quest’anno sono stati realizzati tre mediometraggi, che la nota emittente ritrasmetterà sui propri schermi il 23 novembre prossimo. Madrina dell’evento, la sfrontatissima Madame H si è presentata al cinema Rex vestita da hostess. Il filo conduttore, infatti, era un viaggio nel paradiso dell’omosessualità.
Il primo film era un reportage di Anna Margarita Arbelo sul più grande meeting di lesbiche al mondo, quello di Palm Springs (California), al quale partecipano ogni anno circa diecimila donne. Schietto e brillante, pieno di autoironia, fresco e divertente, Broute minou à Palm Springs era certamente il migliore dei film proposti da Canal Plus e credo che questa mia opinione fosse abbastanza condivisa, almeno a giudicare dall’applausometro al termine della proiezione.
Una piccola isola gay a circa cinquanta chilometri da New York, Fire Island, è invece il tema scelto dalla giornalista Laurence Haïm per il suo La cité rêvée. Per l’autrice, straight (eterosessuale) per sua stessa ammissione, Fire Island rappresenta il paradiso in terra: i gay, che gestiscono tutte le attività commerciali e indicono persino delle elezioni per la presidenza della comunità, sembrerebbero far regnare ovunque la tranquillità più assoluta. A Fire Island questi omosessuali, tutti ricchissimi, ma anche “belli e intelligenti” – come l’autrice ripete più volte, instancabilmente – vanno a dimenticare le proprie difficoltà e a lenire le proprie ferite, lontano dal resto del mondo. Che importa se da lontano si vede il fumo provocato dall’incendio delle Torri gemelle? È vero che la comunità gay dell’isola è contraria alla guerra, ma l’accento viene messo più volentieri sulla cura del proprio orticello: emblematica la dichiarazione di uno degli abitanti di Fire Island che, ripensando all’11 settembre 2001, ci rivela che il suo primo pensiero, quel giorno, è stato: per fortuna esiste quest’isola. Già, proprio una bella gabbia dorata. Quello che stupisce è lo sguardo di Laurence Haïm, che non è mai critico. Anzi, la regista si dimostra fin troppo innamorata di questo mondo del tutto illusorio e, per me, discriminatorio, dal momento che ciò che conta davvero per poterci vivere è possedere un conto in banca ben nutrito. “In America tutto è possibile”, afferma a un certo punto la regista, mostrando una coppia di uomini che ha avuto due figli grazie a quello che in Italia, con espressione orribile, si chiamerebbe “utero in affitto” e che invece in Francia si dice mère porteuse. L’“affitto” è costato la modica somma di sessantamila dollari per ogni figlio. La conclusione, forse, potrebbe essere allora che in America tutto si compra – certo, a patto di averne la possibilità. E chi non può? Laurence Haim non si pone l’interrogativo e il film, desolante, va avanti.
È triste, infine, constatare che la moda dei cow boy gay lanciata da Brokeback Mountain ha fatto un’altra vittima: il pubblico del festival, annoiato e deluso da Cowboy forever, di Jean-Baptiste Erreca. Pare che a Bonito, villaggio brasiliano sperduto nel Mato Grosso, i cowboy trovino il modo di accettare l’omosessualità dei loro colleghi: più che altro lanciano segnali, alludono, lasciano correre, ma non escludono. Sì, bene, e allora?
Fuggi fuggi generale quando sullo schermo compaiono i cortometraggi a sorpresa, cioè quattro o cinque filmetti porno della celebre Colt. Interessanti, forse, per il fatto di essere “storici”, dal momento che risalgono agli anni 70 e 80. Ma tutta quell’abbondanza di muscoli ha lasciato me e A. abbastanza indifferenti, così ci siamo alzati (insieme a una buona fetta di spettatori e spettatrici, bisogna dire) prima del termine della proiezione, e ci siamo precipitati al Bains douche, una celebre discoteca frocia parigina. Dopo aver subito la “perquisizione” dell’infaticabile hostess Madame H, siamo entrati nel locale, dove si è data appuntamento tutta la variegata fauna che ruota intorno al festival. Mondanità finocchia e lesbica assicurata… dietro presentazione del cartoncino, évidemment. Che dire? L’alcol scorreva a fiumi e io ed A. non abbiamo resistito alla tentazione di fare qualche tuffo. Ripetutamente. Follemente. Conseguenza: la nostra assenza forzata alle proiezioni di ieri. Pausa tecnica, diciamo. Come avranno fatto senza di noi? Tranquille, da oggi si riprende.

16 novembre 2006

Jean e Vincent... cosa manca?

Un uomo in prigione, sua moglie, il carceriere. È intorno ai legami che si stabiliscono fra questi tre personaggi che si sviluppa il film di Jean-Pascal Hattu, 7 ans, presentato ieri in anteprima durante la seconda giornata del Festival de films gays et lesbiens di Parigi.
Ogni settimana, Maïté va a trovare suo marito Vincent, condannato a sette anni di reclusione. Un giorno, all’uscita del carcere, uno sconosciuto le si avvicina. I due diventano subito amanti. Ben presto, però, Maïté scopre che si tratta di Jean, una delle guardie della prigione, col quale Vincent ha stretto un patto: deve avere rapporti sessuali con Maïté e registrarli su una cassetta, che poi lui ascolta in cella.
Il tema poteva essere avvincente ed offrire degli spunti interessanti. Si sarebbe potuto, ad esempio, esplorare le conseguenze della prigionia sul desiderio e indagare il ruolo di Jean, che è una sorta di intermediario fisico tra i due sposi, ma che al tempo stesso si innamora di Maïté, al punto da separarsene quando capisce che per lei la situazione si è fatta insostenibile. La sessualità sarebbe potuta diventare simbolo di libertà, se fosse riuscita a travalicare la netta separazione dei ruoli che esiste tra Vincent e Jean. Vincent avrebbe riguadagnato la libertà, pur rimanendo fisicamente recluso, grazie all’attrazione per Jean. A quel punto, si sarebbe posto delle domande sulla reale natura dei suoi rapporti con Jean: solo un mezzo per ritrovare in qualche modo la moglie oppure un sentimento sincero e reciproco? Sarebbero così emerse le mille sfacettature del desiderio e le diverse forme che può assumere o inventare, adattandosi alle diverse situazioni, anche le più estreme.
Ma... sarebbe stato un altro film. In effetti, il regista e sceneggiatore del film si è accontentato di mostrare l’eterosessualità dei personaggi, lasciando a un’unica scena di stampo onirico (i due protagonisti maschili a petto nudo, riflessi uno accanto all’altro in uno specchio) il compito di rappresentare l’ambiguità del rapporto che si instaura tra il prigioniero e il suo carceriere. La storia risulta a tal punto piatta e sbilanciata sul legame tra Jean e la moglie di Vincent, che non sono riuscito ad appassionarmi a nessuno dei personaggi, tantomeno per quello di Maïté, che doveva, secondo le intenzioni del regista, simboleggiare il desiderio femminile e che invece risulta, per me, noioso.
Nutrivo, nei confronti di questo film, più di un’aspettativa. Troppe, forse. In ogni caso, sono state tutte tradite.

15 novembre 2006

Festival di Parigi, partenza in salita

Inizio tutto in salita, ieri, per il Festival de films gays et lesbiens di Parigi. La serata inaugurale ha riunito al cinema Rex, sul boulevard de Bonne Nouvelle, la folla delle grandi occasioni, ed è cominciata con una buona mezz’ora di ritardo. Ma il peggio è arrivato quando, presente in sala l’ambasciatore delle Filippine, è finalmente iniziata la proiezione di L’éveil de Maximo Oliveros, pellicola del filippino Auras Soleto, già vincitore del Teddy per il miglior film a Berlino, di prossima uscita in Francia (marzo 2007). A un pubblico sempre più confuso, che non riusciva proprio a capire, tra le altre cose, come avesse fatto uno dei personaggi a morire e a resuscitare improvvisamente e inspiegabilmente nel giro di poche scene, gli organizzatori hanno dovuto spiegare, durante una pausa forzata, lo spiacevole incidente: a causa di uno scambio di bobine, le prime parti del film erano passate sullo schermo nella sequenza sbagliata.
Peccato, perché la storia raccontata da Oliveros – un dodicenne che vive apertamente la propria omosessualità e il suo innamoramento per un poliziotto dei sobborghi di Manila – conteneva alcuni momenti divertenti che sarebbero forse riusciti a far decollare una narrazione troppo spesso superficiale e caratterizzata talvolta da situazioni improbabili. L’attore che impersonava il protagonista del film mi è parso convincente nelle scene più esilaranti, molto meno in quelle drammatiche.
Subito dopo la proiezione, anche le amanti dell’alcol hanno avuto il loro momento di gloria, quando hanno finalmente potuto mettere le grinfie sull’agognato bicchiere di Cointreau offerto dal Festival al Rex Club, la discoteca accanto al cinema, dove i festeggiamenti sono proseguiti fino a notte fonda.

14 novembre 2006

FHAR!

Dopo mesi di dura fatica, sono lieto di presentarvi la nostra creatura. Speriamo abbia gambe forti. La prima proiezione sarà al Festival de films gays et lesbiens de Paris, Cinéma du monde (42, boulevard de Bonne Nouvelle), domenica 19 novembre 2006, alle 16,15.

FHAR! La rivoluzione del desiderio

un film documentario di Alessandro Avellis e Gabriele Ferluga

Fhar! La rivoluzione del desiderio è un’esplorazione della nebulosa che ha dato vita ai movimenti di liberazione sessuale in Francia e un’indagine sul passaggio dalla rivolta alla normalizzazione degli omosessuali. Attraverso le azioni di improbabili commandi e saggi dai titoli evocativi (il Rapporto contro la normalità o Trois milliards de pervers), emergono i ritratti di Guy Hocquenghem e di Françoise d’Eaubonne, intellettuali straordinari e strenui militanti della rivoluzione del desiderio.
Con: Marie-Jo Bonnet, Catherine Deudon, Anne-Marie Faure, Joani Hocquenghem, Alain Lezongar, Marc Payen, Magali Payen, Angelo Pezzana, André Piana, Anne Querrien, Carole Roussopoulos, René Scherer, Roland Surzur e le Panthères Roses.

PHARE, FARD, FHAR ! ou la révolution du désir
un film d’Alessandro AVELLIS et Gabriele FERLUGA

FICHE TECHNIQUE

ANNÉE 2006
DURÉE 1h20’
GENRE Documentaire
PAYS France

REALISATION Alessandro AVELLIS
SCÉNARIO Alessandro AVELLIS, Gabriele FERLUGA
PRODUCTION LES FILMS DU CONTRAIRE

SYNOPSIS
Phare, Fard, Fhar ! est une exploration de la nébuleuse qui a donné vie aux mouvements de libération sexuelle en France et une interrogation sur le passage de la révolte à la normalisation des homos. Au travers des actions de commandos délirants et d’essais aux titres évocateurs (Le rapport contre la normalité ou Trois milliards de pervers), s’esquissent les portraits de Guy Hocquenghem et de Françoise d’Eaubonne, intellectuels étonnants et partisans inconditionnels de la révolution du désir. Avec : Marie-Jo BONNET, Catherine DEUDON, Anne-Marie FAURE, Joani HOCQUENGHEM, Alain LEZONGAR, Marc PAYEN, Magali PAYEN, Angelo PEZZANA, André PIANA, Anne QUERRIEN, Carole ROUSSOPOULOS, René SCHERER, Roland SURZUR, et les PANTHERES ROSES.

Première projection: Festival de films gays et lesbiens de Paris, Cinéma du monde (42, boulevard de Bonne Nouvelle), dimanche 19 novembre 2006, 16h15.
En présence des réalisateurs.

11 novembre 2006

Podcast 2 - Amore senza confini

Mi sarebbe piaciuto scrivere un post sull’eventuale nesso tra liberazione sessuale e pace, sull’opposizione al conflitto tra Israele e Palestina e sul ruolo che possono giocare i/le militanti del nostro movimento da quelle parti. Sfortunatamente non ho avuto il tempo di farlo. Tuttavia conservo la registrazione di un’intervista a Cristian Lo Iacono che, il 10 giugno 2003, si è recato in Israele e in Palestina con un gruppo di ragazze e di ragazzi denominato Queer for peace, e che proprio di questo mi ha parlato.
Ve la propongo perché mi pare che non sia mai stata tanto d’attualità come in questo momento. Buon ascolto.


[Helena Velena, La canzone di Queer for peace, scaricabile dal sito di Queer for peace; Jerusalem World Pride refrain, scaricabile dal sito del World Pride di Gerusalemme]
[Sottofondo: Black Adam, Tossing dice e DJ Stylez, Arabian mami, licenza CC su podsafe music network. Effetti (aeroporto, citta' , automobile) a partire da files audio di LS, Blackstrobe, Dobroide e Jascha, licenza CC su freesoundproject]
[Grazie a: Alessandro Avellis]





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Gerusalemme, ferita nell'orgoglio

E così la marcia del World Pride di Gerusalemme, alla fine, è stata annullata. La mattanza di Bet Hanoun, durante la quale hanno perso la vita, per mano dell’esercito israeliano, diciotto palestinesi, ha provocato lo stato d’allerta per possibili attentati da parte palestinese. A quel punto le forze dell’ordine hanno affermato che non avrebbero potuto garantire la sicurezza dei partecipanti al Pride, minacciata dagli attacchi della destra religiosa. Eppure, contraddicendosi, la polizia aveva autorizzato gli ultraortodossi a manifestare ieri contro la “marcia dell’abominio”, e di quale violenza siano capaci, abbiamo avuto molteplici prove nei giorni scorsi. Del resto, era stato lo stesso primo ministro Olmert a dichiarare: “Gli ultraortodossi hanno il diritto di opporsi nella maniera in cui lo stanno facendo... Se la polizia ha detto che non poteva garantire la sicurezza del pride, bisognerà rispettare la sua opinione”.
Come se non bastasse, al coro omofobo si era unito anche il Vaticano, da par suo: “La Santa Sede esprime la sua viva disapprovazione per tale iniziativa [il World Pride, ndr] perché essa costituisce un grave affronto ai sentimenti di milioni di credenti ebrei, musulmani e cristiani, i quali riconoscono il particolare carattere sacro della città e chiedono che la loro convinzione sia rispettata. [...] Considerando che in precedenti occasioni sono stati sistematicamente offesi i valori religiosi, la Santa Sede nutre la speranza che la questione possa venire sottoposta a doverosa riconsiderazione”.
Risultato: piuttosto che rinviarlo per l’ennesima volta, l’associazione israeliana che organizzava il World Pride, cioè l’Open House, ha deciso di mantenere la data ma di ridurre la manifestazione a un semplice incontro allo stadio dell’Università ebraica di Gerusalemme. Al cosiddetto “happening” hanno partecipato appena 4000 persone, una cifra persino confortante, viste le premesse.
Intanto gli ultraortodossi cantano vittoria, mentre la comunità glbt israeliana, oltre che ridimensionata nelle sue rivendicazioni, ne esce divisa. Qualche manifestante, infatti, ha deciso di sfilare ugualmente a Gerusalemme in un corteo alternativo che però è stato immediatamente bloccato dai fanatici religiosi e dalle forze dell’ordine. “Dubito che la polizia ci permetta in futuro di organizzare un pride, si sarebbero dovuti annullare completamente gli appuntamenti. Mi dispiace che lo Stato e la società permettano una violenza simile e che la polizia non abbia fatto abbastanza contro questa violenza. La divergenza di opinioni all’interno della comunità non fa che indebolirla”, ha dichiarato il presidente dell’associazione Aguda, Mike Hamel. Yniv Waisman, presidente dell’associazione degli adolescenti omosessuali ha aggiunto: “Adesso, ovunque vorremo organizzare delle azioni dovremo pagare il prezzo dei fatti di queste ultime settimane”.
Non va dimenticato inoltre che alla manifestazione sarebbe mancato un pezzo importante della comunità, quella palestinese. Nonostante lo slogan del World Pride fosse “Love without borders”, cioè “Amore senza confini”, gli steccati resistono. Rauda Murcus, una delle fondatrici dell’associazione lesbica palestinese Aswat, ha fatto notare che non ha senso un pride in una città “dove l’occupazione continua e dove esiste un muro di apartheid che separa la comunità palestinese” e ha chiesto una marcia con contenuti più politici.

Fonte: Têtu.

06 novembre 2006

Il World Pride di Gerusalemme non può essere vietato

Potremmo qualificarla come una mezza vittoria. Intanto, però, la conferma è arrivata: ieri sera l’Attorney General israeliano, Menachem Mazuz, ha deciso che il World Pride si terrà a Gerusalemme, come già da tempo stabilito, nonostante l’opposizione delle forze di polizia, preoccupate per il recente infittirsi delle proteste e delle minacce da parte degli ebrei ultraortodossi, ferocemente contrari allo svolgimento della manifestazone.
La reazione dell’Open House, associazione organizzatrice dell’evento, non si è fatta attendere: “Mazuz difende la democrazia” – ha dichiarato Noa Satat, esponente del movimento glbt israeliano – “e non soccombe a coloro che minacciano violenza e terrore”.
La decisione giunge al termine di una giornata molto tesa durante la quale a Gerusalemme corrono le voci più disparate. Aprono le danze Saar-Ran Netanel ed Etai Pinkas, consigliere comunale della capitale il primo, di Tel Aviv il secondo, entrambi membri della comunità glbt, i quali lanciano una provocazione: noi rinunciamo al World Pride, in compenso i partiti dell’estrema destra accettano di far approvare alla Knesset (parlamento) una legge sulle unioni civili, astenendosi al momento del voto. Nessuna risposta, com’è logico attendersi.
Intorno alle 13, il giornale Yedioth Ahronot pubblica sul proprio sito le dichiarazioni del capo del distretto di polizia di Gerusalemme, Ilan Franco: “Se la parata sarà mantenuta, le vite umane saranno in pericolo”. È noto che Franco vorrebbe cancellare l’appuntamento, sostenendo di non poter garantire l’incolumità dei partecipanti in caso di incidenti. Le informazioni delle quali dice di essere in possesso, fornitegli dai servizi, a suo dire sono incontrovertibili. A lui si associa il capo della polizia Moshe Karadi: insieme hanno proposto agli organizzatori del World Pride di tenere una manifestazione stanziale, in un parco della città; ma l’Open House declina questa possibilità.
Cominciano allora le proteste degli ultraortodossi. Sono le 15. Un gruppo interrompe il traffico intorno alla città di Beit Shemesh, per protestare contro l’esistenza degli autobus misti: i rivoltosi pretenderebbero che i posti da assegnare a uomini e donne fossero separati. Un autobus che tenta di forzare il blocco si vede investito da lanci di pietre e uova: al termine dell’assalto, l’autista risulterà leggermente ferito. Intanto, nelle vie antistanti Hashabat Square a Gerusalemme, un altro manipolo di fanatici sparge olio sulle carreggiate.
Alle 16 è convocata la riunione tra il capo della polizia Moshe Karadi, il capo del distretto di Gerusalemme Ilan Franco e l’Attorney General, Menachem Mazuz. È il momento più atteso, perché è da quel colloquio che dipende la decisione finale sul World Pride. I media israeliani segnalano già le divergenze all’interno del trio: se da un lato i rappresentanti delle forze dell’ordine intendono chiedere l’annullamento della manifestazione (“sappiamo che il rischio potenziale di un massacro è più forte del diritto alla libera espressione”, affermano), l’Attorney General chiede il rispetto del diritto della comunità glbt di sfilare per le strade di Gerusalemme. Nel frattempo, Saar-Ran Netanel in una lettera chiede al primo ministro Ehud Olmert di condannare la violenza e l’incitamento all’odio contro gay e lesbiche: “Soprattutto chi, come lei, è stato sindaco di Gerusalemme, non può restare indifferente”, scrive Netanel.
Sono le 19 quando filtrano finalmente le prime notizie sulla decisione dell’Attorney General. Per qualcuno è una vera sorpresa: Menachem Mazuz vieta alla polizia di impedire il regolare svolgimento del World Pride. Tuttavia, auspica che il corteo diventi “una marcia più contenuta da tenersi nei tempi e nel luogo che tutte le parti condividono”. Il che vuol dire che lunedì i rappresentanti delle forze dell’ordine dovranno ridiscutere un “piano accettabile” con gli organizzatori del World Pride, e concordare un percorso ed eventualmente una data diversi da quelli inizialmente previsti.
Nel frattempo Gerusalemme si è infiammata di nuovo e altri venti ultraortodossi sono stati arrestati dalla polizia nel corso delle violente proteste registrate nella tarda serata di ieri, contro il pronunciamento dell’Attorney General.

Foto: elyash25.

03 novembre 2006

World Pride a Gerusalemme: sarà annullato?

Ce la stanno mettendo davvero tutta, gli ebrei ultraortodossi israeliani, per impedire lo svolgimento del World Pride a Gerusalemme. Previsto per il 10 novembre, il corteo, che secondo l’associazione organizzatrice Open House non dovrebbe riunire più di qualche migliaio di persone, potrebbe essere rinviato e successivamente confinato in uno spazio chiuso, forse il Jerusalem International Convention Center. Questo almeno, stando alle fonti del quotidiano israeliano Yedioth Ahronot, il quale precisa che la polizia si appresterebbe a presentare un ricorso alla Corte Suprema per chiedere l’annullamento della manifestazione. La ragione? Ufficialmente si tratterebbe della violenza omofoba che si è scatenata da parte ultraortodossa in questi giorni. Il bilancio delle battaglie che questi gruppi ingaggiano contro le forze dell’ordine al termine delle loro ormai quotidiane proteste contro lo svolgimento del World Pride a Gerusalemme, è finora di cinque poliziotti feriti da lanci di pietre e decine di arresti. La polizia sostiene di non poter contenere gli eventuali attacchi che gli ultraortodossi intendono portare contro gay, lesbiche, bisessuali e transessuali durante il Pride.
Il capo della polizia di Gerusalemme, Ilan Franco, non ha ancora precisato (lo farà solamente domenica prossima) se consentirà o meno lo svolgersi della manifestazione glbt. E intanto afferma: “Bisogna distinguere tra la libertà d’espressione e la democrazia, la quale garantisce la sicurezza dei cittadini”. Come se “libertà d’espressione” e “democrazia”, invece di essere due idee strettamente legate tra loro, rappresentassero due concetti incompatibili. E come se si ammettesse che, a causa delle minacce provenienti dalla destra ultraortodossa, fosse necessario sopprimere il diritto di manifestare piuttosto che sanzionare gli omofobi.
E così si legittimano implicitamente, ad esempio, le dichiarazioni di Hilel Waiss et Baruch Mrzel, due personalità della destra ultraortodossa che, riferendosi al ferimento di tre manifestanti al Pride di Gerusalemme di un anno fa da parte di un estremista, hanno potuto dichiarare in televisione: “Tutto è permesso pur di spazzare via l’orrore di questa marcia lontano da Gerusalemme. L’accoltellamento dell’anno scorso non è niente in confronto a ciò che è previsto quest’anno”.
Ambre Grayman, dell’agenzia israeliana francofona Guysen, a proposito delle manifestazioni omofobe scrive: “Davanti a questa mobilitazione senza precedenti per tentare di proteggere gli uomini dalla loro propria follia, ci si interroga sul vero motivo che spinge gli omosessuali a sfilare a Gerusalemme. Hanno forse dimenticato che lo slogan del World Pride 2006 predica ‘amore e pace’? Un amore e una pace dei quali la culla del monoteismo ha tanto bisogno e che potrebbe trasformarsi in odio e in guerra il 10 novembre prossimo. Un risultato del quale non ci sarebbe davvero di che andar pride (fieri)”.
“Il pride è un corteo per i diritti civili e la libertà d’espressione”, hanno fatto sapere dall’associazione Open House, “è inconcepibile che la violenza e le minacce privino i cittadini di Gerusalemme della loro sacrosanta libertà d’espressione”. Con tutta probabilità, è anche per cercare di togliere di mezzo simili pretesti, che proprio oggi gli organizzatori del World Pride hanno avuto un incontro con alcuni rabbini, al termine del quale è stato diffuso un appello affinché le violenze cessino. Con quale riscontro, è ancora difficile da dire.

Fonti: Guysen, Têtu, Yedioth Ahronot.

02 novembre 2006

Podcast 1 - Le banlieue, un anno fa

Ottobre 2005. Il ministro dell’Interno Nicolas Sarkozy dichiara di voler ripulire le periferie dalla feccia. Due ragazzi muoiono folgorati durante un inseguimento delle forze dell’ordine. Per alcuni giorni, le banlieue francesi s’infiammano.
Per capirci qualcosa di più, decido di sentire l’opinione di una persona che vive e lavora in una delle periferie calde, a Aulnay-sous-Bois, vicino a Parigi. È Sérénade Chafik, femminista, scrittrice, consigliera familiare. Con lei registro, all’inizio di novembre dello scorso anno, l’intervista che oggi vi propongo.
A risentirlo adesso, sembra che il colloquio con Sérénade non sia invecchiato neanche un po’. I media, infatti, una volta esauriti tutti gli anniversari (i due morti, il primo incendio, la prima rivolta in questa o quella città), volgeranno la loro attenzione altrove; i problemi nelle banlieue, purtroppo, resteranno gli stessi. Quali sono e come affrontarli senza demagogia e strumentalizzazioni? Con Sérénade cerchiamo di abbozzare qualche risposta...





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Vorrei fare una breve premessa...

Va bene. Dopo qualche riflessione e dopo un bel po’ di tempo passato a distruggere vecchi feed e a crearne di nuovi, mi sembra giunta l’ora di rianimare il podcast.
Querelle(s) podcast, si chiama, per la precisione. Vi definite puristi del blog? Multimedialità per voi è solo una parolaccia? Allora lasciate che io, da quasi neofita del mezzo, vi instilli qualche dubbio. Il podcast, cioè la possibilità di diffondere contenuti audio attraverso un feed al quale gli ascoltatori possono abbonarsi, può essere un buon mezzo, per me, per integrare i temi che affronto su Querelle(s).
Se siete interessati, avrete varie possibilità:

- potrete ascoltare i file audio in streaming, premendo sul pulsante “play” del dewplayer che inserirò nei post dedicati al podcast;
- potrete scaricare il file mp3 in questione cliccando sul pulsante Podcast ed ascoltarlo in un altro momento usando il computer oppure il vostro lettore abituale;
- se avete iTunes, potrete abbonarvi al podcast in maniera semplicissima cliccando sull’icona di iTunes;
- se vorrete essere aggiornati sul podcast ma non utilizzate iTunes, potrete ricopiare il feed del podcast e inseritelo nel vostro aggregatore.

Almeno credo. Tutto ciò sarà più chiaro a partire dal prossimo post, che è anche il primo episodio di Querelle(s) podcast. Buon ascolto.

31 ottobre 2006

Fino alla distruzione, nel nome del solo diritto, i leoni uccidono i cuccioli

Ho già dato conto di alcune reazioni alla segnalazione di un mio post (Perché là sì e qui no?) da parte della sezione Libero Blog di Libero. I lettori continuano a pubblicare commenti, anche se a un ritmo meno sostenuto. Riporto qui alcune delle nuove reazioni, più precisamente quelle omofobe. E non ho ancora deciso se ridere o piangere.

- Omofobo io? Con tutti gli amici omosessuali che ho!
chimipare per Psicoterapeuta ha scritto (29 ottobre 2006, ore 12:36)
Continua sulla tua strada amico mio, poi vedrai come cambieranno le cose. E comunque, non per farmi i cazzi tuoi, ma io conosco il significato di tutte quelle parole, visto che ho molti amici omosessuali se lo vuoi sapere e in più non bevo, non fumo e non mi drogo. Quindi? E' inutile che ti credi chissachì, abbassa il tono e tieni quel poco che hai vicino a te, ti servirà un giorno.

- Apocalypse now
italianovero ha scritto (29 ottobre 2006, ore 21:48)
DOPO LE LESBICHE I GAY DOPO I GAY I LIBANESI DOPO I LIBANESI I MAROCCHINI DOPO I MAROCCHINI I RUMENI DOPO I RUMENI GLI ISLAMICI IN QUESTA ITALIA DI GRANDI APERTURE C'E' ANCORA POSTO....... FORSE ........PER GLI ITALIANI E LE PERSONE COMUNI FINO ALLA DISTRUZIONE. ciao

- Brrrr
Paolone ha scritto (30 ottobre 2006, ore 14:13)
Meno male che non siamo in Norvegia! Tutto quel freddo può dare alla testa. Ma poi basta un filmato per dire che l'omossessualità animale è normale per dire che va bene tra gli uomini? Anche quando si scannano tra loro allora va bene, se ciò deve essere poi paragonato con l'uomo! Questo dimostra che i paesi definiti più "civilizzati" stanno andando a rotoli come valori e persino come obbiettività nel nome del solo "diritto". Per carità, W l'Italia!

- Uccidiamoci i figli
Sarah ha scritto (30 ottobre 2006, ore 16:57)
I leoni uccidono i cuccioli degli altri leoni per evitare che questi crescano e si appropriano del loro territorio allora uccidiamoci i figli a vicenda!!! certo che di stupidagini se ne dicono tante ci mettiamo alla pari degli animali ora...

- Questo è il secondo a darmi il consiglio giusto
Gio ha scritto (30 ottobre 2006, ore 18:03)
E allora vai là

I premi sono già stati assegnati in un post precedente. Peccato.

30 ottobre 2006

Il mio PaCS - Arrivo

Quando siamo entrati, da celibi, al tribunal d’instance del nostro arrondissement, erano le dieci del mattino. Ne siamo usciti pacsati alle dieci e venticinque. Giusto il tempo per il cancelliere (una ragazza gentilissima che portava un paio di scarpe da ginnastica) di controfirmare il contratto del pacs, di rilasciare l’attestazione della sua iscrizione nei registri del tribunale e di darci una breve spiegazione dei nostri diritti e dei nostri doveri.
In effetti, il contratto detto “de pacte civil de solidarité” si presenta così: “Noi sottoscritti (seguono i nomi) concludiamo un patto civile di solidarietà a norma della legge n. 99-944 del 15 novembre 1999 (articoli 515-1 e seguenti del Codice civile). Ci impegnamo a darci un sostegno materiale reciproco dividendo le spese correnti così come le spese relative al nostro domicilio comune. Fatto a Parigi, in due copie, il 23/10/2006 [la data è quella relativa alla nostra prima presentazione con i documenti]. (Seguono le firme)”.
La legge prevede che i beni acquisiti fino al giorno del pacs appartengano ognuno al suo proprietario. A partire da oggi, invece, a tutto ciò che verrà acquisito sarà applicata la comunione dei beni: qualsiasi bene, anche se acquistato da uno solo di noi, apparterrà per metà anche all’altro, salvo che all’atto della compravendita non venga fatta una menzione specifica attestante la proprietà esclusiva da parte di uno solo di noi oppure una proprietà comune ma in proporzioni diverse rispetto alla metà per ciascuno. Questo punto è stato modificato recentemente da un’altra legge che ha introdotto, per le coppie pacsate, il regime della separazione dei beni (salvo deroghe all’atto della compravendita), cioè l’esatto contrario di quanto avviene oggi. La norma avrà effetto a partire dal 1° gennaio 2007 e, se vorremo adeguare il nostro contratto al nuovo regime, dovremo farlo attraverso una modifica da far registrare al tribunale.
Qualsiasi debito contratto da uno di noi due per la nostra vita in comune sarà imputabile anche all’altro. Dal punto di vista fiscale, dovremo fare una dichiarazione dei redditi separata per i mesi ormai passati e una dichiarazione congiunta per il tempo che resta da oggi alla fine dell’anno. Poi faremo ogni anno una sola dichiarazione congiunta e le imposte verranno pagate considerando il reddito totale del nucleo familiare (è un punto particolarmente importante perché in questo modo una coppia i cui membri hanno redditi molto diversi, avrà un’imposizione globalmente più leggera rispetto a chi, pur essendo in coppia e nelle medesime condizioni di reddito, non è pacsato e non può quindi presentare una dichiarazione congiunta).
Assolutamente nulla per quanto riguarda la pensione o l’eredità: qualora io dovessi mancare (corna e toccamenti sono più che graditi), il mio compagno non avrebbe diritto ad ereditare ciò che ho posseduto, ma al massimo a rimanere nello stesso domicilio dove abbiamo abitato per non più di un anno. È la lacuna più evidente di questa legge, il punto sul quale le associazioni glbt avevano chiesto una riforma seria, che la maggioranza governativa di destra non ha accolto.
Inoltre: il nostro pacs è valido in Francia, ma non in Italia dove non è riconosciuto (toh!).
Perché l’abbiamo fatto? Perché dopo tanti anni passati insieme, ci sembrava giusto offrire l’uno all’altro quelle garanzie minime che la legge permette qui a una coppia gay. È vero, il pacs, che in fin dei conti è “solamente” un contratto tra due persone, non ha niente a che vedere con l’amore, o meglio, può anche non avere alcuna attinenza con il rapporto affettivo degli individui che decidono di sottoscriverlo: resta il fatto, però, che non di solo amore si vive ed esiste una serie di questioni pratiche che possono essere utilmente regolate dalla legge. Dopodiché, il modo di gestire la nostra coppia, dal punto di vista strettamente relazionale, dipende solo da noi: il peso della “tradizione” o dell’ “innovazione” nel concepire il nostro rapporto, non dipende da questo atto amministrativo, se non in piccola parte.
Certo, è vero anche che la firma di un pacs non significa la rivoluzione sociale e il sovvertimento dell’idea di famiglia: questo potrà tranquillizzare forse i più feroci difensori dell’istituto familiare ed inquietare al tempo stesso quei gay e quelle lesbiche più legat* a un’idea rivoluzionaria (e non normalizzatrice) della presenza omosessuale nella società. Io però credo che se oggi si manifestano enormi resistenze, tensioni e contraddizioni di fronte al tentativo di allargare i concetti di “famiglia” e “genitorialità” e sotrarli agli angusti binomi uomo-donna/padre-madre, qualcosa vorrà pur dire. Insomma, mi pare che siamo di fronte a due possibilità: o la nostra cosiddetta “comunità” sta pretendendo, attraverso il pacs o il matrimonio, l’omologazione, l’appiattimento sul modello eterosessuale (che si rivelerebbe quindi vincente e l’unico possibile) oppure stiamo costruendo qualcosa di nuovo e stiamo facendo evolvere delle strutture arcaiche, degli istituti (come quello familiare) che già da tempo mostrano la corda. Resterebbe da dimostrare (mentre il dubbio che ho appena esposto rimane tutto intero, almeno per me) che, nella seconda delle ipotesi, stiamo riuscendo a condurre una critica efficace del modello familiare, nel momento stesso in cui reclamiamo il diritto di entrarne a far parte.
Uff! E adesso due cose: cambio per ventiquattr’ore i colori del blog, così, tanto per segnalare che oggi sono contento. Eppoi per quanto riguarda i festeggiamenti: stasera, appena avremo finito di lavorare, io e Staou scompariremo e ce ne staremo soli soletti, per i fatti nostri. Ma una buona bottiglia vi aspetta sempre qui da me. Besos!