Catania Pride 2008 - 5 luglio

23 novembre 2006

Pianeta Shortbus, la sessualità oltre il perbenismo

Però è indicativo, non siete d’accordo? Dico: il fatto che nelle sale di mezzo mondo stia circolando lo splendido film di John Cameron Mitchell, Shortbus, mentre in Italia ci si accapiglia intorno allo sceneggiato di Banfi, vorrà pur dire qualcosa. Saprà tanto di luogo comune, eppure le risate che ci seppelliscono quando all’estero diciamo che gli sceneggiati in Italia li chiamiamo fiction, non ci piovono addosso per una maledizione divina. Il fatto è che siamo una nazione che della modernità ha accolto solo gli aspetti più superficiali, e neanche quelli migliori. Di questi trompe-l’oeil nell’italico stivale ci si vanta, mentre dietro la facciata coltiviamo il marcio. Crediamo che sia sufficiente un po’ di belletto inglese per rifarci un trucco che tenga, ma basta qualche secondo, lo sguardo divertito di un francese (che i film per la tv li chiama téléfilms), perché la maschera crolli.
Allora, se posso darvi modestamente un consiglio, fateVI un favore: spegnete per qualche ora la televisione e lasciate Banfi, Binetti ed altri cosetti a bollire nel loro brodo. È arrivato finalmente anche in Italia il film più bello e interessante di quest’anno, forse anche degli ultimi anni. Andate al cinema a vedere anche voi quante riflessioni possono sorgere intorno alla sessualità, una volta abbandonata la propria rigidità mentale, il proprio bigottismo, il proprio oscurantismo.
Io ho visto Shortbus una decina di giorni fa in una sala piena ed entusiasta (27.217 spettatori nella prima settimana di programmazione a Parigi). Più che visto, sarebbe meglio dire “vissuto”, vista la grande partecipazione che suscita. Una grande boccata d’aria fresca e la sensazione che, attraverso la sessualità, fosse la vita stessa dei personaggi a essere messa in scena e che quegli attori e quelle attrici (molto spesso non professionisti), in realtà, fossimo noi: i nostri fantasmi, i nostri timori, le nostre barriere, ma anche l’ingegnosità con la quale ci sforziamo di superarle. Quando dico che è la nostra stessa esistenza che Mitchell mette in scena e scortica fino a mostrarci, con un’efficacia straordinaria, quanto in alto e quanto in basso donne e uomini possano volare, non parlo solo di lesbiche e gay. Parlo di qualcosa di ben più vasto, del genere umano e donnano*. Mi pare che la forza di Shortbus stia proprio nella rappresentazione di ciò che potremmo fare dei nostri corpi, del livello di comunicazione cui potremmo giungere, se soltanto fossimo sessualmente liberi, libere e consapevoli delle nostre potenzialità.
Della sessualità Shortbus considera molti aspetti: l’elemento ludico e divertente, quello ripetitivo e un po’ coatto, la ricerca di sé, la scoperta, il piacere, il dolore... È un film molto divertente e al tempo stesso serio, che non si limita a farci immaginare qualcosa d’inesistente, ma, con la sua forza, ci fa desiderare di realizzarlo. Vero è che una delle battute del film (che riporto citandola a memoria, quindi approssimativamente) dice: “Qui è come negli anni 60, però senza quella speranza”. Ma io ho sentito il film come un invito continuo a mettere in pratica le utopie che altri prima di noi non sono riusciti a concretizzare. Ci si può chiedere, semmai, se tutta l’energia creatrice espressa dalla sessualità in quel film, rimanga per il pubblico fine a se stessa oppure generi qualche frutto positivo. Se, insomma, uscendo dal cinema, ci portiamo a casa un pezzo di Shortbus e nuove idee, oppure se tutto tornerà come prima e rientrerà nei binari della quotidiana “normalità” (la parola che forse odio di più fra tutte). Se lo scopo di un film non è fare la rivoluzione, quanto piuttosto metterla in scena, a chi tocca questo compito?
D’accordo, ritorno sulla Terra, più precisamente in Italia, perché già sento qualcuno azzuffarsi sullo status da conferire a Shortbus: è porno oppure no? Il fatto che si vedano uccelli in erezione e che i rapporti eterosessuali come quelli omosessuali siano girati in modo assolutamente esplicito, può farlo rientrare “tecnicamente” – come è stato scritto – in quella categoria? Ma il fatto che siano messi in scena anche i sentimenti e che intorno alla sessualità si sviluppi un discorso molto profondo sulla nostra esistenza, non tenderebbe piuttosto ad escluderlo? Darei la risposta più semplice: e chi se ne frega! Per una volta che il sesso al cinema è rappresentato senza ipocrisia e che sullo schermo si realizza un convincente incontro tra l’ideale e il reale (il nostro vissuto), volete rovinarvi il piacere discettando su queste sciocchezze?
Qualcuno ci proverà (a rovinarvi il piacere, sciocche!). Anzi, ci è già riuscito: ad esempio, perché in Francia questo stesso film è vietato a chi ha meno di sedici anni e in Italia ai minori di diciotto? Perché la distribuzione italiana (la BIM) aveva previsto la diffusione di cento copie ma, constatato il rifiuto di molti gestori, si è rassegnata a farne uscire in sala solo sessanta? Ma è ovvio: perché gli italiani e le italiane amano la fiction, che domande!

* Se volete anche voi usare questo termine senza complessi, vi consiglio la lettura di Gert Brantenberg, Le figlie di Egalia (1977; Estro, 1992: chiedete al centro di documentazione glbt più vicino!).

Fonte: l’Unità via Gaynews (descrive la trama).
Siti ufficiali di Shortbus: americano, francese, italiano.

Aspetto i vostri commenti al film, sono molto curioso di sapere cosa ne pensate.

22 novembre 2006

E in Spagna, che si dice?

In Italia tutti hanno recitato la loro parte. Lino Banfi nel ruolo di padre comprensivo, le due attrici in quello delle novelle spose nella Spagna progressista di Zapatero e la destra italica che s’indigna perché alla televisione si osa mostrare “una parodia di matrimonio” che mette a repentaglio nientemeno che “il futuro della nostra società” (la perla è di Giovanardi, a ognuno il suo). Lesbiche e gay hanno inviato la doverosa letterina a mamma Rai, affinché non si azzardasse a mettere le mani su Il padre delle spose e a privare il matrimonio fra persone dello stesso sesso di un’adeguata rappresentazione in prima serata. Oggi la principale azienda “culturale” italiana sembra contenta dei sette milioni e passa d’ascolto, e anche di aver sollevato il tema: “Dei Pacs, dell'unione tra omosessuali, si discute nelle famiglie,” – dice Agostino Saccà, direttore di Rai Fiction – “non ci si può girare dall'altra parte”. Vero, è da un bel po’ che lo diciamo; stupefacente, semmai, che lo si capisca solo oggi.
Ma il siparietto non poteva essere completo, senza l’ennesima lacerazione del centrosinistra. Protagonista in commedia, anche questa volta, l’impagabile Binetti (Margerita) che, con parole da scolpire nella pietra tanto sono argute, ci avverte: “È altamente inopportuna una trasmissione che tocca un problema su cui ancora non si è discusso adeguatamente e che comunque non fa parte del programma di governo”. Vorrà dire che la prossima volta, prima di trattare un qualsiasi tema sociale, lo sceneggiatore avrà cura di consultare preventivamente Per il bene dell’Italia. Programma di governo 2006-2011. Chi lo sa che in qualche pagina dell’immenso ed altrimenti inutile tomo, non si trovi qualcosina sulla censura o sulla reintroduzione dell’Indice: ecco finalmente un soggetto per la Binetti!
In Spagna, invece, le poche reazioni sono compiaciute, oppure venate da stupore misto a malcelata ironia. Beatriz Gimeno, presidente dell’iberica FELGT (Federación Estatal de Lesbianas, Gays, Trasexuales y bisexuales), ha per esempio dichiarato: “Mi rallegro del fatto che inizino ad esistere fiction come Il padre delle spose, perché in Spagna hanno rappresentato il principio del cammino”. Non se ne abbia la Gimeno se osiamo mestamente ricondurla un attimo soltanto alla realtà, per dirle che purtroppo film del genere, dato il contesto italiano, costituiscono non solo l’inizio, ma anche la fine del dibattito. (Ricordate gli strombazzamenti quando la disciplina dei PaCS era stata finalmente calendarizzata per il mese di novembre 2006 alla Commissione Giustizia della Camera? Nessuna nuova buona nuova?).
E oggi, sul quotidiano spagnolo Ideal, il corrispondente Iñigo Dominguez, a proposito della fiction di Banfi, scrive di “una grande polemica, incredibile se vista da fuori ma che riflette molto bene come vanno le cose in Italia”. E ancora: “È molto simpatico il modo in cui la Spagna è presentata, un miscuglio di paradiso di perdizione e svariati altri stereotipi, dato che la sposa iberica in questione cucina paella e suona la chitarra”. Si tratta di “un vaudeville innocente e farcito di luoghi comuni,” – continua Dominguez – “che però centra in pieno un tema che è tabù a causa dell’onnipresente zampino del Vaticano nelle faccende italiane: l’accettazione dell’omosessualità”.
Ve lo immaginate il corrispondente di Ideal che scrive dalla capitale d’Italia (Europa)? Chi vi ricorda? La risposta è qui.

21 novembre 2006

Aggredito in pieno centro a Madrid

Contusioni multiple, ferite per arma da taglio sulla testa e il volto, vari punti a un orecchio, perdita temporanea della memoria e un bernoccolo nel punto dove la bottiglia di whisky lo ha colpito. Sono le conseguenze di un attacco omofobo occorso venerdì scorso, nel pieno centro di Madrid, a José Ignacio Pichardo, gay di 35 anni, colpevole di essersi retto al braccio del compagno mentre scendeva le scale all’ingresso della stazione del metro Príncipe Pío, vicino al Palazzo Reale.
La coppia era da poco uscita dal cinema quando improvvisamente tre ragazzi le si sono parati davanti, con l’aria di non gradire la vicinanza tra i due uomini – causata, peraltro, da un problema al tallone di cui soffre José. Prima li hanno insultati la grido di “froci, pagliacci!”, poi si sono gettati su José, malmenandolo. Solo quando il suo compagno ha estratto dallo zainetto il cellulare per chiamare la polizia, i tre si sono dati alla fuga.
José ha dichiarato ieri che i suoi aggressori non erano “né immigrati, né zingari, né skinhead, né appartenenti ad alcuna minoranza; che nessuno si sogni di giustificare l’attacco in questo modo. Se vogliono trovare il colpevole” – ha aggiunto lucidissimo – “pensino a quelli che, con i loro messaggi, provocano l’omofobia, come la Chiesa cattolica o il Partido Popular [la destra di Aznar, n.d.r.]”.
Quella di José – il quale, tra l’altro, è volontario all’associazione glbt COGAM e ha pubblicato un’inchiesta sull’omofobia nel sistema educativo – è solo l’ultima di una serie di aggressioni contro gay, lesbiche e trans spagnoli e spagnole. Come ricorda giustamente un comunicato della Federacion Estatal de Lesbianas, Gays, Transexuales y bisexuales (FELGT), “non basta legiferare per mettere fine a una discriminazione che dura da secoli: bisogna educare le coscienze. Bisogna insegnare il rispetto delle diversità ai futuri cittadini e alle future cittadine. Bisogna indicare nella differenza un valore positivo e non qualcosa da temere o odiare”.
E chi pensa che l'istituzione del matrimonio risolva di colpo tutti i problemi legati all’omofobia, è purtroppo servito.

Fino qui, tutto bene

Giusto due righe per dire che tutto è andato meravigliosamente bene. Alla prima del nostro documentario sul Fhar hanno assistito circa duecento persone, la sala era stracolma e molta gente ha dovuto rinunciare a entrare. Già durante la proiezione molti e molte hanno sottolineato alcuni passaggi con applausi o risate. Moltissimi i fischi contro Ségolène Royal, quando una delle femministe da noi intervistate ha ricordato che la candidata socialista, non proprio rivoluzionaria nell'ambito delle politiche familiari, si esprime ancora "in quanto madre" (a proposito: non ho ancora avuto tempo di farlo, ma prima o poi bisognerà pur commentare questo nient'affatto stupefacente innamoramento per Ségolène Royal di certa sinistra italiana).
Il dibattito alla fine è stato alquanto ridotto, anche perché la proiezione è cominciata con circa mezz'ora di ritardo (non esagero, credetemi, se parlo di un certo trambusto all'ingresso). In ogni caso le critiche che abbiamo ricevuto sono state molto positive e molte persone hanno persino tenuto a ringraziarci. È stata per noi una buona boccata d'ossigeno, dopo mesi di duro lavoro. Adesso andiamo avanti, sperando di poter dare a questo documentario la massima visibilità.

19 novembre 2006

La prima!

Ci siamo. Oggi Alessandro ed io presentiamo al Festival de films gays et lesbiens di Parigi il nostro documentario sulla storia del primo movimento omosessuale rivoluzionario francese, il FHAR, nato nel 1971 e morto per “autoconsunzione” sul finire del 1973. Una meteora, come è stata chiamata, sorta dall’incontro-scontro tra le istanze femministe sostenute dal Mouvement de Libération des Femmes e il militantismo dei gruppuscoli della sinistra extraparlamentare dell’epoca. Quel terreno fertile ha fatto sì che le danze potessero aprirsi anche per i “pédés” (froci) e le “gouines” (lesbiche) di Francia.
Abbiamo cercato di capire che cosa fosse il FHAR, attraverso le testimonianze di chi ha partecipato a quella avventura e gli archivi che di quell’epoca ci sono rimasti. A rivederlo oggi, questo Front Homosexuel d’Action Révolutionnaire ci appare come una creatura invero molto strana: un esplosivo miscuglio di gauchismo e paillettes, di discorsi rivoluzionari e di situazioni camp, di teorizzazione e di pratica politica, ma anche sessuale, quotidiana. Un gruppo di chiassosi travestiti (le Gazolines), eppoi quelli e quelle che ancora non si chiamavano transessuali, e ovviamente gay e lesbiche di ogni estrazione sociale, immigrati e francesi doc, si davano appuntamento ogni settimana all’Académie des Beaux Arts a Parigi, dove si svolgevano le riunioni più deliranti che l’estrema sinistra francese abbia mai conosciuto: assemblee, certo, alle quali seguivano però delle orge rimaste leggendarie. E dappertutto, nelle case private sparse in diversi quartieri della capitale, ma anche in provincia, i fharisti e le fhariste si ritrovavano per organizzare le uscite pubbliche, liberarsi e amarsi.
Da quella straordinaria fucina è scaturita la figura di Guy Hocquenghem, all’epoca giovanissimo intellettuale di formazione maoista, cresciuto alla scuola del filosofo René Schérer e destinato a diventare giornalista a Libération e brillante romanziere. È lui a pubblicare, influenzato da L’Antiedipo di Deleuze e Guattari, un’opera che rimane ancora oggi fra le più importanti per gli studi di genere e le teorie sorte intorno all’omosessualità o al “queer”: Le désir homosexuel. Il fatto che Hocquenghem abbia poi denunciato, talvolta in modo estremamente corrosivo, la sfacciataggine e l’arroganza di quegli ex sessantottini che hanno sacrificato gli ideali di gioventù alla loro carriera nel sistema socialista mitterrandiano, spiega, almeno in parte, il silenzio nel quale il pensiero e le opere di questo omosessuale rivoluzionario sono caduti dopo la morte, sopraggiunta per aids nel 1988.
L’altro grande personaggio del quale abbiamo voluto parlare è Françoise d’Eaubonne, scrittrice estremamente prolifica, femminista da sempre, presente sia all’MLF che al FHAR, morta nel 2005.
Siamo partiti chiedendoci perché oggi il FHAR, Guy Hocquenghem, Françoise d’Eaubonne, sono dimenticati dalla stragrande maggioranza dei gay e delle lesbiche francesi. Qual è stato il percorso che ci porta a essere i gay e le lesbiche che effettivamente siamo? La riflessione sul passato non è tuttavia disgiunta da un interrogativo sul presente, su quanto le lotte e le eventuali ambizioni del FHAR siano o non siano rimaste attuali. Mentre il movimento italiano e quello francese si domandano se preferire i PaCS o rivendicare piuttosto il matrimonio fra persone dello stesso sesso, che spazio può trovare nel 2006 l’affermazione di Françoise d’Eaubonne, secondo la quale non spetta alla società il compito di integrare gli e le omosessuali, ma agli e alle omosessuali quello di disintegrarla? Normalizzazione o, al contrario, cambiamento?
Cercare di comprendere il FHAR, per noi, significa quindi porsi queste domande e usare la storia anche come strumento d’interpretazione dell’oggi. Speriamo di essere riusciti a offrire un contributo in questo senso.

18 novembre 2006

La serata Canal Plus: film, alcol, paillettes

Giovedì scorso il Festival de films gays et lesbiens di Parigi ha ospitato la tradizionale serata organizzata da Canal Plus: quest’anno sono stati realizzati tre mediometraggi, che la nota emittente ritrasmetterà sui propri schermi il 23 novembre prossimo. Madrina dell’evento, la sfrontatissima Madame H si è presentata al cinema Rex vestita da hostess. Il filo conduttore, infatti, era un viaggio nel paradiso dell’omosessualità.
Il primo film era un reportage di Anna Margarita Arbelo sul più grande meeting di lesbiche al mondo, quello di Palm Springs (California), al quale partecipano ogni anno circa diecimila donne. Schietto e brillante, pieno di autoironia, fresco e divertente, Broute minou à Palm Springs era certamente il migliore dei film proposti da Canal Plus e credo che questa mia opinione fosse abbastanza condivisa, almeno a giudicare dall’applausometro al termine della proiezione.
Una piccola isola gay a circa cinquanta chilometri da New York, Fire Island, è invece il tema scelto dalla giornalista Laurence Haïm per il suo La cité rêvée. Per l’autrice, straight (eterosessuale) per sua stessa ammissione, Fire Island rappresenta il paradiso in terra: i gay, che gestiscono tutte le attività commerciali e indicono persino delle elezioni per la presidenza della comunità, sembrerebbero far regnare ovunque la tranquillità più assoluta. A Fire Island questi omosessuali, tutti ricchissimi, ma anche “belli e intelligenti” – come l’autrice ripete più volte, instancabilmente – vanno a dimenticare le proprie difficoltà e a lenire le proprie ferite, lontano dal resto del mondo. Che importa se da lontano si vede il fumo provocato dall’incendio delle Torri gemelle? È vero che la comunità gay dell’isola è contraria alla guerra, ma l’accento viene messo più volentieri sulla cura del proprio orticello: emblematica la dichiarazione di uno degli abitanti di Fire Island che, ripensando all’11 settembre 2001, ci rivela che il suo primo pensiero, quel giorno, è stato: per fortuna esiste quest’isola. Già, proprio una bella gabbia dorata. Quello che stupisce è lo sguardo di Laurence Haïm, che non è mai critico. Anzi, la regista si dimostra fin troppo innamorata di questo mondo del tutto illusorio e, per me, discriminatorio, dal momento che ciò che conta davvero per poterci vivere è possedere un conto in banca ben nutrito. “In America tutto è possibile”, afferma a un certo punto la regista, mostrando una coppia di uomini che ha avuto due figli grazie a quello che in Italia, con espressione orribile, si chiamerebbe “utero in affitto” e che invece in Francia si dice mère porteuse. L’“affitto” è costato la modica somma di sessantamila dollari per ogni figlio. La conclusione, forse, potrebbe essere allora che in America tutto si compra – certo, a patto di averne la possibilità. E chi non può? Laurence Haim non si pone l’interrogativo e il film, desolante, va avanti.
È triste, infine, constatare che la moda dei cow boy gay lanciata da Brokeback Mountain ha fatto un’altra vittima: il pubblico del festival, annoiato e deluso da Cowboy forever, di Jean-Baptiste Erreca. Pare che a Bonito, villaggio brasiliano sperduto nel Mato Grosso, i cowboy trovino il modo di accettare l’omosessualità dei loro colleghi: più che altro lanciano segnali, alludono, lasciano correre, ma non escludono. Sì, bene, e allora?
Fuggi fuggi generale quando sullo schermo compaiono i cortometraggi a sorpresa, cioè quattro o cinque filmetti porno della celebre Colt. Interessanti, forse, per il fatto di essere “storici”, dal momento che risalgono agli anni 70 e 80. Ma tutta quell’abbondanza di muscoli ha lasciato me e A. abbastanza indifferenti, così ci siamo alzati (insieme a una buona fetta di spettatori e spettatrici, bisogna dire) prima del termine della proiezione, e ci siamo precipitati al Bains douche, una celebre discoteca frocia parigina. Dopo aver subito la “perquisizione” dell’infaticabile hostess Madame H, siamo entrati nel locale, dove si è data appuntamento tutta la variegata fauna che ruota intorno al festival. Mondanità finocchia e lesbica assicurata… dietro presentazione del cartoncino, évidemment. Che dire? L’alcol scorreva a fiumi e io ed A. non abbiamo resistito alla tentazione di fare qualche tuffo. Ripetutamente. Follemente. Conseguenza: la nostra assenza forzata alle proiezioni di ieri. Pausa tecnica, diciamo. Come avranno fatto senza di noi? Tranquille, da oggi si riprende.

16 novembre 2006

Jean e Vincent... cosa manca?

Un uomo in prigione, sua moglie, il carceriere. È intorno ai legami che si stabiliscono fra questi tre personaggi che si sviluppa il film di Jean-Pascal Hattu, 7 ans, presentato ieri in anteprima durante la seconda giornata del Festival de films gays et lesbiens di Parigi.
Ogni settimana, Maïté va a trovare suo marito Vincent, condannato a sette anni di reclusione. Un giorno, all’uscita del carcere, uno sconosciuto le si avvicina. I due diventano subito amanti. Ben presto, però, Maïté scopre che si tratta di Jean, una delle guardie della prigione, col quale Vincent ha stretto un patto: deve avere rapporti sessuali con Maïté e registrarli su una cassetta, che poi lui ascolta in cella.
Il tema poteva essere avvincente ed offrire degli spunti interessanti. Si sarebbe potuto, ad esempio, esplorare le conseguenze della prigionia sul desiderio e indagare il ruolo di Jean, che è una sorta di intermediario fisico tra i due sposi, ma che al tempo stesso si innamora di Maïté, al punto da separarsene quando capisce che per lei la situazione si è fatta insostenibile. La sessualità sarebbe potuta diventare simbolo di libertà, se fosse riuscita a travalicare la netta separazione dei ruoli che esiste tra Vincent e Jean. Vincent avrebbe riguadagnato la libertà, pur rimanendo fisicamente recluso, grazie all’attrazione per Jean. A quel punto, si sarebbe posto delle domande sulla reale natura dei suoi rapporti con Jean: solo un mezzo per ritrovare in qualche modo la moglie oppure un sentimento sincero e reciproco? Sarebbero così emerse le mille sfacettature del desiderio e le diverse forme che può assumere o inventare, adattandosi alle diverse situazioni, anche le più estreme.
Ma... sarebbe stato un altro film. In effetti, il regista e sceneggiatore del film si è accontentato di mostrare l’eterosessualità dei personaggi, lasciando a un’unica scena di stampo onirico (i due protagonisti maschili a petto nudo, riflessi uno accanto all’altro in uno specchio) il compito di rappresentare l’ambiguità del rapporto che si instaura tra il prigioniero e il suo carceriere. La storia risulta a tal punto piatta e sbilanciata sul legame tra Jean e la moglie di Vincent, che non sono riuscito ad appassionarmi a nessuno dei personaggi, tantomeno per quello di Maïté, che doveva, secondo le intenzioni del regista, simboleggiare il desiderio femminile e che invece risulta, per me, noioso.
Nutrivo, nei confronti di questo film, più di un’aspettativa. Troppe, forse. In ogni caso, sono state tutte tradite.

15 novembre 2006

Festival di Parigi, partenza in salita

Inizio tutto in salita, ieri, per il Festival de films gays et lesbiens di Parigi. La serata inaugurale ha riunito al cinema Rex, sul boulevard de Bonne Nouvelle, la folla delle grandi occasioni, ed è cominciata con una buona mezz’ora di ritardo. Ma il peggio è arrivato quando, presente in sala l’ambasciatore delle Filippine, è finalmente iniziata la proiezione di L’éveil de Maximo Oliveros, pellicola del filippino Auras Soleto, già vincitore del Teddy per il miglior film a Berlino, di prossima uscita in Francia (marzo 2007). A un pubblico sempre più confuso, che non riusciva proprio a capire, tra le altre cose, come avesse fatto uno dei personaggi a morire e a resuscitare improvvisamente e inspiegabilmente nel giro di poche scene, gli organizzatori hanno dovuto spiegare, durante una pausa forzata, lo spiacevole incidente: a causa di uno scambio di bobine, le prime parti del film erano passate sullo schermo nella sequenza sbagliata.
Peccato, perché la storia raccontata da Oliveros – un dodicenne che vive apertamente la propria omosessualità e il suo innamoramento per un poliziotto dei sobborghi di Manila – conteneva alcuni momenti divertenti che sarebbero forse riusciti a far decollare una narrazione troppo spesso superficiale e caratterizzata talvolta da situazioni improbabili. L’attore che impersonava il protagonista del film mi è parso convincente nelle scene più esilaranti, molto meno in quelle drammatiche.
Subito dopo la proiezione, anche le amanti dell’alcol hanno avuto il loro momento di gloria, quando hanno finalmente potuto mettere le grinfie sull’agognato bicchiere di Cointreau offerto dal Festival al Rex Club, la discoteca accanto al cinema, dove i festeggiamenti sono proseguiti fino a notte fonda.

14 novembre 2006

FHAR!

Dopo mesi di dura fatica, sono lieto di presentarvi la nostra creatura. Speriamo abbia gambe forti. La prima proiezione sarà al Festival de films gays et lesbiens de Paris, Cinéma du monde (42, boulevard de Bonne Nouvelle), domenica 19 novembre 2006, alle 16,15.

FHAR! La rivoluzione del desiderio

un film documentario di Alessandro Avellis e Gabriele Ferluga

Fhar! La rivoluzione del desiderio è un’esplorazione della nebulosa che ha dato vita ai movimenti di liberazione sessuale in Francia e un’indagine sul passaggio dalla rivolta alla normalizzazione degli omosessuali. Attraverso le azioni di improbabili commandi e saggi dai titoli evocativi (il Rapporto contro la normalità o Trois milliards de pervers), emergono i ritratti di Guy Hocquenghem e di Françoise d’Eaubonne, intellettuali straordinari e strenui militanti della rivoluzione del desiderio.
Con: Marie-Jo Bonnet, Catherine Deudon, Anne-Marie Faure, Joani Hocquenghem, Alain Lezongar, Marc Payen, Magali Payen, Angelo Pezzana, André Piana, Anne Querrien, Carole Roussopoulos, René Scherer, Roland Surzur e le Panthères Roses.

PHARE, FARD, FHAR ! ou la révolution du désir
un film d’Alessandro AVELLIS et Gabriele FERLUGA

FICHE TECHNIQUE

ANNÉE 2006
DURÉE 1h20’
GENRE Documentaire
PAYS France

REALISATION Alessandro AVELLIS
SCÉNARIO Alessandro AVELLIS, Gabriele FERLUGA
PRODUCTION LES FILMS DU CONTRAIRE

SYNOPSIS
Phare, Fard, Fhar ! est une exploration de la nébuleuse qui a donné vie aux mouvements de libération sexuelle en France et une interrogation sur le passage de la révolte à la normalisation des homos. Au travers des actions de commandos délirants et d’essais aux titres évocateurs (Le rapport contre la normalité ou Trois milliards de pervers), s’esquissent les portraits de Guy Hocquenghem et de Françoise d’Eaubonne, intellectuels étonnants et partisans inconditionnels de la révolution du désir. Avec : Marie-Jo BONNET, Catherine DEUDON, Anne-Marie FAURE, Joani HOCQUENGHEM, Alain LEZONGAR, Marc PAYEN, Magali PAYEN, Angelo PEZZANA, André PIANA, Anne QUERRIEN, Carole ROUSSOPOULOS, René SCHERER, Roland SURZUR, et les PANTHERES ROSES.

Première projection: Festival de films gays et lesbiens de Paris, Cinéma du monde (42, boulevard de Bonne Nouvelle), dimanche 19 novembre 2006, 16h15.
En présence des réalisateurs.

11 novembre 2006

Podcast 2 - Amore senza confini

Mi sarebbe piaciuto scrivere un post sull’eventuale nesso tra liberazione sessuale e pace, sull’opposizione al conflitto tra Israele e Palestina e sul ruolo che possono giocare i/le militanti del nostro movimento da quelle parti. Sfortunatamente non ho avuto il tempo di farlo. Tuttavia conservo la registrazione di un’intervista a Cristian Lo Iacono che, il 10 giugno 2003, si è recato in Israele e in Palestina con un gruppo di ragazze e di ragazzi denominato Queer for peace, e che proprio di questo mi ha parlato.
Ve la propongo perché mi pare che non sia mai stata tanto d’attualità come in questo momento. Buon ascolto.


[Helena Velena, La canzone di Queer for peace, scaricabile dal sito di Queer for peace; Jerusalem World Pride refrain, scaricabile dal sito del World Pride di Gerusalemme]
[Sottofondo: Black Adam, Tossing dice e DJ Stylez, Arabian mami, licenza CC su podsafe music network. Effetti (aeroporto, citta' , automobile) a partire da files audio di LS, Blackstrobe, Dobroide e Jascha, licenza CC su freesoundproject]
[Grazie a: Alessandro Avellis]





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Gerusalemme, ferita nell'orgoglio

E così la marcia del World Pride di Gerusalemme, alla fine, è stata annullata. La mattanza di Bet Hanoun, durante la quale hanno perso la vita, per mano dell’esercito israeliano, diciotto palestinesi, ha provocato lo stato d’allerta per possibili attentati da parte palestinese. A quel punto le forze dell’ordine hanno affermato che non avrebbero potuto garantire la sicurezza dei partecipanti al Pride, minacciata dagli attacchi della destra religiosa. Eppure, contraddicendosi, la polizia aveva autorizzato gli ultraortodossi a manifestare ieri contro la “marcia dell’abominio”, e di quale violenza siano capaci, abbiamo avuto molteplici prove nei giorni scorsi. Del resto, era stato lo stesso primo ministro Olmert a dichiarare: “Gli ultraortodossi hanno il diritto di opporsi nella maniera in cui lo stanno facendo... Se la polizia ha detto che non poteva garantire la sicurezza del pride, bisognerà rispettare la sua opinione”.
Come se non bastasse, al coro omofobo si era unito anche il Vaticano, da par suo: “La Santa Sede esprime la sua viva disapprovazione per tale iniziativa [il World Pride, ndr] perché essa costituisce un grave affronto ai sentimenti di milioni di credenti ebrei, musulmani e cristiani, i quali riconoscono il particolare carattere sacro della città e chiedono che la loro convinzione sia rispettata. [...] Considerando che in precedenti occasioni sono stati sistematicamente offesi i valori religiosi, la Santa Sede nutre la speranza che la questione possa venire sottoposta a doverosa riconsiderazione”.
Risultato: piuttosto che rinviarlo per l’ennesima volta, l’associazione israeliana che organizzava il World Pride, cioè l’Open House, ha deciso di mantenere la data ma di ridurre la manifestazione a un semplice incontro allo stadio dell’Università ebraica di Gerusalemme. Al cosiddetto “happening” hanno partecipato appena 4000 persone, una cifra persino confortante, viste le premesse.
Intanto gli ultraortodossi cantano vittoria, mentre la comunità glbt israeliana, oltre che ridimensionata nelle sue rivendicazioni, ne esce divisa. Qualche manifestante, infatti, ha deciso di sfilare ugualmente a Gerusalemme in un corteo alternativo che però è stato immediatamente bloccato dai fanatici religiosi e dalle forze dell’ordine. “Dubito che la polizia ci permetta in futuro di organizzare un pride, si sarebbero dovuti annullare completamente gli appuntamenti. Mi dispiace che lo Stato e la società permettano una violenza simile e che la polizia non abbia fatto abbastanza contro questa violenza. La divergenza di opinioni all’interno della comunità non fa che indebolirla”, ha dichiarato il presidente dell’associazione Aguda, Mike Hamel. Yniv Waisman, presidente dell’associazione degli adolescenti omosessuali ha aggiunto: “Adesso, ovunque vorremo organizzare delle azioni dovremo pagare il prezzo dei fatti di queste ultime settimane”.
Non va dimenticato inoltre che alla manifestazione sarebbe mancato un pezzo importante della comunità, quella palestinese. Nonostante lo slogan del World Pride fosse “Love without borders”, cioè “Amore senza confini”, gli steccati resistono. Rauda Murcus, una delle fondatrici dell’associazione lesbica palestinese Aswat, ha fatto notare che non ha senso un pride in una città “dove l’occupazione continua e dove esiste un muro di apartheid che separa la comunità palestinese” e ha chiesto una marcia con contenuti più politici.

Fonte: Têtu.

06 novembre 2006

Il World Pride di Gerusalemme non può essere vietato

Potremmo qualificarla come una mezza vittoria. Intanto, però, la conferma è arrivata: ieri sera l’Attorney General israeliano, Menachem Mazuz, ha deciso che il World Pride si terrà a Gerusalemme, come già da tempo stabilito, nonostante l’opposizione delle forze di polizia, preoccupate per il recente infittirsi delle proteste e delle minacce da parte degli ebrei ultraortodossi, ferocemente contrari allo svolgimento della manifestazone.
La reazione dell’Open House, associazione organizzatrice dell’evento, non si è fatta attendere: “Mazuz difende la democrazia” – ha dichiarato Noa Satat, esponente del movimento glbt israeliano – “e non soccombe a coloro che minacciano violenza e terrore”.
La decisione giunge al termine di una giornata molto tesa durante la quale a Gerusalemme corrono le voci più disparate. Aprono le danze Saar-Ran Netanel ed Etai Pinkas, consigliere comunale della capitale il primo, di Tel Aviv il secondo, entrambi membri della comunità glbt, i quali lanciano una provocazione: noi rinunciamo al World Pride, in compenso i partiti dell’estrema destra accettano di far approvare alla Knesset (parlamento) una legge sulle unioni civili, astenendosi al momento del voto. Nessuna risposta, com’è logico attendersi.
Intorno alle 13, il giornale Yedioth Ahronot pubblica sul proprio sito le dichiarazioni del capo del distretto di polizia di Gerusalemme, Ilan Franco: “Se la parata sarà mantenuta, le vite umane saranno in pericolo”. È noto che Franco vorrebbe cancellare l’appuntamento, sostenendo di non poter garantire l’incolumità dei partecipanti in caso di incidenti. Le informazioni delle quali dice di essere in possesso, fornitegli dai servizi, a suo dire sono incontrovertibili. A lui si associa il capo della polizia Moshe Karadi: insieme hanno proposto agli organizzatori del World Pride di tenere una manifestazione stanziale, in un parco della città; ma l’Open House declina questa possibilità.
Cominciano allora le proteste degli ultraortodossi. Sono le 15. Un gruppo interrompe il traffico intorno alla città di Beit Shemesh, per protestare contro l’esistenza degli autobus misti: i rivoltosi pretenderebbero che i posti da assegnare a uomini e donne fossero separati. Un autobus che tenta di forzare il blocco si vede investito da lanci di pietre e uova: al termine dell’assalto, l’autista risulterà leggermente ferito. Intanto, nelle vie antistanti Hashabat Square a Gerusalemme, un altro manipolo di fanatici sparge olio sulle carreggiate.
Alle 16 è convocata la riunione tra il capo della polizia Moshe Karadi, il capo del distretto di Gerusalemme Ilan Franco e l’Attorney General, Menachem Mazuz. È il momento più atteso, perché è da quel colloquio che dipende la decisione finale sul World Pride. I media israeliani segnalano già le divergenze all’interno del trio: se da un lato i rappresentanti delle forze dell’ordine intendono chiedere l’annullamento della manifestazione (“sappiamo che il rischio potenziale di un massacro è più forte del diritto alla libera espressione”, affermano), l’Attorney General chiede il rispetto del diritto della comunità glbt di sfilare per le strade di Gerusalemme. Nel frattempo, Saar-Ran Netanel in una lettera chiede al primo ministro Ehud Olmert di condannare la violenza e l’incitamento all’odio contro gay e lesbiche: “Soprattutto chi, come lei, è stato sindaco di Gerusalemme, non può restare indifferente”, scrive Netanel.
Sono le 19 quando filtrano finalmente le prime notizie sulla decisione dell’Attorney General. Per qualcuno è una vera sorpresa: Menachem Mazuz vieta alla polizia di impedire il regolare svolgimento del World Pride. Tuttavia, auspica che il corteo diventi “una marcia più contenuta da tenersi nei tempi e nel luogo che tutte le parti condividono”. Il che vuol dire che lunedì i rappresentanti delle forze dell’ordine dovranno ridiscutere un “piano accettabile” con gli organizzatori del World Pride, e concordare un percorso ed eventualmente una data diversi da quelli inizialmente previsti.
Nel frattempo Gerusalemme si è infiammata di nuovo e altri venti ultraortodossi sono stati arrestati dalla polizia nel corso delle violente proteste registrate nella tarda serata di ieri, contro il pronunciamento dell’Attorney General.

Foto: elyash25.

03 novembre 2006

World Pride a Gerusalemme: sarà annullato?

Ce la stanno mettendo davvero tutta, gli ebrei ultraortodossi israeliani, per impedire lo svolgimento del World Pride a Gerusalemme. Previsto per il 10 novembre, il corteo, che secondo l’associazione organizzatrice Open House non dovrebbe riunire più di qualche migliaio di persone, potrebbe essere rinviato e successivamente confinato in uno spazio chiuso, forse il Jerusalem International Convention Center. Questo almeno, stando alle fonti del quotidiano israeliano Yedioth Ahronot, il quale precisa che la polizia si appresterebbe a presentare un ricorso alla Corte Suprema per chiedere l’annullamento della manifestazione. La ragione? Ufficialmente si tratterebbe della violenza omofoba che si è scatenata da parte ultraortodossa in questi giorni. Il bilancio delle battaglie che questi gruppi ingaggiano contro le forze dell’ordine al termine delle loro ormai quotidiane proteste contro lo svolgimento del World Pride a Gerusalemme, è finora di cinque poliziotti feriti da lanci di pietre e decine di arresti. La polizia sostiene di non poter contenere gli eventuali attacchi che gli ultraortodossi intendono portare contro gay, lesbiche, bisessuali e transessuali durante il Pride.
Il capo della polizia di Gerusalemme, Ilan Franco, non ha ancora precisato (lo farà solamente domenica prossima) se consentirà o meno lo svolgersi della manifestazione glbt. E intanto afferma: “Bisogna distinguere tra la libertà d’espressione e la democrazia, la quale garantisce la sicurezza dei cittadini”. Come se “libertà d’espressione” e “democrazia”, invece di essere due idee strettamente legate tra loro, rappresentassero due concetti incompatibili. E come se si ammettesse che, a causa delle minacce provenienti dalla destra ultraortodossa, fosse necessario sopprimere il diritto di manifestare piuttosto che sanzionare gli omofobi.
E così si legittimano implicitamente, ad esempio, le dichiarazioni di Hilel Waiss et Baruch Mrzel, due personalità della destra ultraortodossa che, riferendosi al ferimento di tre manifestanti al Pride di Gerusalemme di un anno fa da parte di un estremista, hanno potuto dichiarare in televisione: “Tutto è permesso pur di spazzare via l’orrore di questa marcia lontano da Gerusalemme. L’accoltellamento dell’anno scorso non è niente in confronto a ciò che è previsto quest’anno”.
Ambre Grayman, dell’agenzia israeliana francofona Guysen, a proposito delle manifestazioni omofobe scrive: “Davanti a questa mobilitazione senza precedenti per tentare di proteggere gli uomini dalla loro propria follia, ci si interroga sul vero motivo che spinge gli omosessuali a sfilare a Gerusalemme. Hanno forse dimenticato che lo slogan del World Pride 2006 predica ‘amore e pace’? Un amore e una pace dei quali la culla del monoteismo ha tanto bisogno e che potrebbe trasformarsi in odio e in guerra il 10 novembre prossimo. Un risultato del quale non ci sarebbe davvero di che andar pride (fieri)”.
“Il pride è un corteo per i diritti civili e la libertà d’espressione”, hanno fatto sapere dall’associazione Open House, “è inconcepibile che la violenza e le minacce privino i cittadini di Gerusalemme della loro sacrosanta libertà d’espressione”. Con tutta probabilità, è anche per cercare di togliere di mezzo simili pretesti, che proprio oggi gli organizzatori del World Pride hanno avuto un incontro con alcuni rabbini, al termine del quale è stato diffuso un appello affinché le violenze cessino. Con quale riscontro, è ancora difficile da dire.

Fonti: Guysen, Têtu, Yedioth Ahronot.

02 novembre 2006

Podcast 1 - Le banlieue, un anno fa

Ottobre 2005. Il ministro dell’Interno Nicolas Sarkozy dichiara di voler ripulire le periferie dalla feccia. Due ragazzi muoiono folgorati durante un inseguimento delle forze dell’ordine. Per alcuni giorni, le banlieue francesi s’infiammano.
Per capirci qualcosa di più, decido di sentire l’opinione di una persona che vive e lavora in una delle periferie calde, a Aulnay-sous-Bois, vicino a Parigi. È Sérénade Chafik, femminista, scrittrice, consigliera familiare. Con lei registro, all’inizio di novembre dello scorso anno, l’intervista che oggi vi propongo.
A risentirlo adesso, sembra che il colloquio con Sérénade non sia invecchiato neanche un po’. I media, infatti, una volta esauriti tutti gli anniversari (i due morti, il primo incendio, la prima rivolta in questa o quella città), volgeranno la loro attenzione altrove; i problemi nelle banlieue, purtroppo, resteranno gli stessi. Quali sono e come affrontarli senza demagogia e strumentalizzazioni? Con Sérénade cerchiamo di abbozzare qualche risposta...





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Vorrei fare una breve premessa...

Va bene. Dopo qualche riflessione e dopo un bel po’ di tempo passato a distruggere vecchi feed e a crearne di nuovi, mi sembra giunta l’ora di rianimare il podcast.
Querelle(s) podcast, si chiama, per la precisione. Vi definite puristi del blog? Multimedialità per voi è solo una parolaccia? Allora lasciate che io, da quasi neofita del mezzo, vi instilli qualche dubbio. Il podcast, cioè la possibilità di diffondere contenuti audio attraverso un feed al quale gli ascoltatori possono abbonarsi, può essere un buon mezzo, per me, per integrare i temi che affronto su Querelle(s).
Se siete interessati, avrete varie possibilità:

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- se vorrete essere aggiornati sul podcast ma non utilizzate iTunes, potrete ricopiare il feed del podcast e inseritelo nel vostro aggregatore.

Almeno credo. Tutto ciò sarà più chiaro a partire dal prossimo post, che è anche il primo episodio di Querelle(s) podcast. Buon ascolto.