Gerusalemme, 10 novembre 2006
Gli attivisti e le attiviste dell’associazione glbt Open House di Gerusalemme ce l’hanno fatta: la marcia del World Pride si terrà il 10 novembre prossimo. Lo ha stabilito ieri la Corte Suprema israeliana, dopo un negoziato durato circa tre ore tra l’associazione stessa, la polizia e il comune.
Gli organizzatori del pride, che si è svolto intorno alla metà di agosto e il cui evento principale, cioè la marcia, era stato annullato a causa della guerra tra Israele e Libano, avevano in seguito puntato sul 21 settembre, ricevendo però il rifiuto della polizia: impossibile garantire la sicurezza della manifestazione – hanno sostenuto le autorità – data la coincidenza con una serie di festività religiose. A quel punto l’Open House ha proposto altre sei date, senza ricevere alcuna risposta da parte delle forze dell’ordine.
Ed è così che il gruppo glbt ha promosso una causa presso l’alta corte, la quale ha stabilito l’obbligo per il comune di Gerusalemme di collaborare all’organizzazione della marcia del 10 novembre e per la polizia quello di proteggerla adeguatamente.
La notizia ha suscitato la collera dell’esponente di estrema destra Baruch Marzel, il quale ha addirittura invocato una “guerra santa contro questo evento”: “Faremo tutto il possibile per impedire la parata”, ha affermato. Dal canto suo, il giornalista ultraortodosso Yitzhak Weiss sembra riecheggiare, nelle sue dichiarazioni, le violente prese di posizione dei mesi scorsi da parte dei rappresentanti della religione ebraica, di quella cattolica e dell’islam, uniti nella condanna dell’omosessualità: “Immaginate di avere una parata simile in Vaticano o alla Mecca. A differenza di altre religioni noi non siamo violenti. Nessuno sta cercando di privar[e gay e lesbiche] dei loro diritti o di dire loro che cosa fare nelle proprie case. Ma anche in un paese occidentale se qualcuno cammina nudo per strada viene arrestato”.
Già in passato, del resto, la presenza della comunità glbt aveva disturbato non poco i sonni del sindaco di Gerusalemme, lo scarsamente friendly Uri Lupolianski, che aveva chiamato “devianti” i gay.
Di tutt’altro avviso la segretaria dell’Open House, Noa Satat, che ha parlato di “un successo nell’ampliamento della libertà di parola e dell’uguaglianza fra membri della comunità, nell’interesse di un Israele pluralistico e democratico”.
Un obiettivo ancora lontano dal realizzarsi pienamente, come dimostrano le contraddizioni in seno alla comunità glbt, portate alla luce dal conflitto tra Israele e Palestina. Il 9 agosto scorso, per esempio, un gruppo di attivisti dell’Open House aveva manifestato la propria solidarietà con i gay e le lesbiche palestinesi, per i quali è sempre più difficile partecipare alla vita dell’associazione a causa del muro di separazione fatto costruire dal governo israeliano. E il gruppo gay musulmano statunitense Al-Fatiha ha diffuso una lettera aperta nella quale dichiara di non poter “sostenere la partecipazione a un World Pride che si svolge in una Gerusalemme isolata, sotto il regime d’apartheid israeliano”.
Gli organizzatori del pride, che si è svolto intorno alla metà di agosto e il cui evento principale, cioè la marcia, era stato annullato a causa della guerra tra Israele e Libano, avevano in seguito puntato sul 21 settembre, ricevendo però il rifiuto della polizia: impossibile garantire la sicurezza della manifestazione – hanno sostenuto le autorità – data la coincidenza con una serie di festività religiose. A quel punto l’Open House ha proposto altre sei date, senza ricevere alcuna risposta da parte delle forze dell’ordine.
Ed è così che il gruppo glbt ha promosso una causa presso l’alta corte, la quale ha stabilito l’obbligo per il comune di Gerusalemme di collaborare all’organizzazione della marcia del 10 novembre e per la polizia quello di proteggerla adeguatamente.
La notizia ha suscitato la collera dell’esponente di estrema destra Baruch Marzel, il quale ha addirittura invocato una “guerra santa contro questo evento”: “Faremo tutto il possibile per impedire la parata”, ha affermato. Dal canto suo, il giornalista ultraortodosso Yitzhak Weiss sembra riecheggiare, nelle sue dichiarazioni, le violente prese di posizione dei mesi scorsi da parte dei rappresentanti della religione ebraica, di quella cattolica e dell’islam, uniti nella condanna dell’omosessualità: “Immaginate di avere una parata simile in Vaticano o alla Mecca. A differenza di altre religioni noi non siamo violenti. Nessuno sta cercando di privar[e gay e lesbiche] dei loro diritti o di dire loro che cosa fare nelle proprie case. Ma anche in un paese occidentale se qualcuno cammina nudo per strada viene arrestato”.
Già in passato, del resto, la presenza della comunità glbt aveva disturbato non poco i sonni del sindaco di Gerusalemme, lo scarsamente friendly Uri Lupolianski, che aveva chiamato “devianti” i gay.
Di tutt’altro avviso la segretaria dell’Open House, Noa Satat, che ha parlato di “un successo nell’ampliamento della libertà di parola e dell’uguaglianza fra membri della comunità, nell’interesse di un Israele pluralistico e democratico”.
Un obiettivo ancora lontano dal realizzarsi pienamente, come dimostrano le contraddizioni in seno alla comunità glbt, portate alla luce dal conflitto tra Israele e Palestina. Il 9 agosto scorso, per esempio, un gruppo di attivisti dell’Open House aveva manifestato la propria solidarietà con i gay e le lesbiche palestinesi, per i quali è sempre più difficile partecipare alla vita dell’associazione a causa del muro di separazione fatto costruire dal governo israeliano. E il gruppo gay musulmano statunitense Al-Fatiha ha diffuso una lettera aperta nella quale dichiara di non poter “sostenere la partecipazione a un World Pride che si svolge in una Gerusalemme isolata, sotto il regime d’apartheid israeliano”.
Nessun commento:
Posta un commento