Catania Pride 2008 - 5 luglio

27 settembre 2007

Mehdi Kazemi, iraniano e gay

“Se in Iran non ci sono omosessuali, allora non so chi sono io, visto che sono iraniano e gay e che ho seri problemi a rientrare nel mio paese a causa del mio orientamento sessuale”. A scriverlo è un giovane gay, Mehdi Kazemi, in un’e-mail spedita all’Iranian Queer Organization (IRQO), un’associazione che lotta per i diritti civili di gay, lesbiche e transessuali iranian*. Lo stesso gruppo di attivist* ha poi diffuso il testo del messaggio, come risposta alle sconcertanti dichiarazioni rese tre giorni fa da Ahmadinejad, secondo il quale “il fenomeno dell’omosessualità non esiste in Iran”.
Ma chi è Mehdi Kazemi? Lo ha raccontato lui stesso qualche tempo fa, quando ha dovuto presentare una domanda d’asilo al governo inglese. Questa è la sua storia.


Sono iraniano, sono nato l’8 aprile 1988, a Teheran. Sono un musulmano sciita. Ho vissuto sempre con i miei genitori e mia sorella fino al 15 settembre 2005, quando sono venuto in Inghilterra. Mio padre possiede un negozio di frutta secca in Iran e di tanto in tanto fa dell’import-export.
Ho frequentato la scuola a Teheran per dodici anni. Avevo 17 anni quando mio padre ha deciso che avrei studiato in Inghilterra. Ha preparato tutto affinché venissi qui a studiare. Una volta arrivato, ho cominciato un corso d’inglese e per i primi due mesi ho vissuto con mio zio a Londra. Poi mi sono trasferito a Brighton e, nel novembre 2005, sono entrato all’Embassy CES College a Hove. Ho prolungato il mio permesso di soggiorno fino a novembre 2006, poiché intendevo continuare a studiare in Inghilterra.
Quando ero in Iran, non avevo alcun problema. Tuttavia, avevo appena compiuto 15 anni, quando ho scoperto che ero attratto sessualmente dagli uomini. Avevo molta paura di questo sentimento e l’ho tenuto per me. Più o meno in quel periodo, ho cominciato a frequentare uno dei miei compagni di scuola. Si chiamava Parham. Anche lui era iraniano ed eravamo soliti passare molto tempo insieme. Parham era il mio migliore amico e un giorno mi disse che era attratto dagli uomini e non dalle donne. Allora mi sono sentito a mio agio con lui e ho deciso di raccontargli che provavo la stessa cosa. Avevamo entrambi 15 anni quando abbiamo deciso di cominciare la nostra relazione.
Ci vedevamo ogni giorno, a scuola, al cinema o al parco. Abbiamo cominciato ad avere rapporti sessuali otto mesi dopo aver cominciato a uscire insieme. Ci incontravamo o a casa sua o a casa mia, quando non c’era nessuno. Tutti erano all’oscuro della nostra relazione. Credevano che fossimo amici per la pelle ma niente di più. Provavo verso di lui un sentimento molto forte e non mi stancavo mai di vederlo. Abbiamo deciso di mantenere segreta la nostra relazione, poiché sapevo che se qualcuno del governo l’avesse scoperta, saremmo stati condannati a morte.
Quando mio padre decise che dovevo studiare in Inghilterra, ero triste per il fatto di dover abbandonare Parham in Iran. Ma sapevo che sarei potuto tornare per le vacanze scolastiche e dopo aver completato gli studi in Inghilterra. Il pensiero di poter tornare mi dava il coraggio necessario a lasciare Parham in Iran.
Quando sono arrivato in Inghilterra, mi tenevo in contatto con lui via e-mail. Ci scrivevamo una volta alla settimana circa. Mi diceva che la situazione in Iran stava peggiorando e che la repressione aumentava. Sentivamo molto la mancanza l’uno dell’altro.
Intorno a dicembre 2005, Parham ha smesso di scrivermi. Gli ho mandato due o tre e-mail, ma non ha risposto. Pensavo che si trovasse lontano da Teheran o che non avesse accesso a internet.
Verso la fine di marzo 2006, mio zio mi ha riferito che mio padre lo aveva informato della mia relazione con questo ragazzo. Poi mi ha raccontato che Parham era stato arrestato dalle autorità iraniane e aveva fatto il mio nome. Le autorità erano andate a casa di mio padre a cercarmi e lui era rimasto sconvolto e impaurito da tutta la situazione. Mio zio, che è un uomo dalla mentalità aperta e ha vissuto in Inghilterra gran parte della sua vita, non si è arrabbiato e mi ha suggerito di provare a rimanere, poiché la mia vita sarebbe stata in pericolo se fossi tornato in Iran.
Quel giorno, più tardi, mio padre mi chiamò e si mostrò molto arrabbiato con me. Gridò al telefono contro di me e mi disse di rientrare in Iran prima possibile. Voleva picchiarmi. Io non gli dissi niente e riattaccai. Avevo molta paura di lui.
Ho continuato a studiare, ma ero sempre teso. Pensavo a Parham. Ero molto triste e temevo per la mia vita. Sapevo che se fossi tornato in Iran sarei stato ucciso.
A fine aprile 2006, mio zio mi chiamò di nuovo per dirmi che mio padre gli aveva riferito che le autorità iraniane avevano condannato a morte Parham. Aggiunse che mio padre aveva avuto allora molta paura e si era molto raccomandato perché non tornassi in Iran, poiché volevano farmi la stessa cosa.
Ma come avevano fatto le autorità iraniane a scoprire che Parham era omosessuale? Mio zio mi ha detto che era stato trovato in compagnia di un altro ragazzo e lo avevano arrestato. Durante l’interrogatorio gli avevano chiesto di parlare di tutti gli uomini coi quali era stato ed allora aveva fatto il mio nome. Le autorità avevano quindi riferito a mio padre che io avevo avuto una relazione con Parham.
Parham è stato accusato di essere omosessuale e condannato a morte. L’Iran è un paese islamico dove avere una relazione con una persona dello stesso sesso costituisce un reato molto grave. Le autorità iraniane hanno scoperto che sono omosessuale ed ora sono ricercato. Non posso impedirmi di essere attratto dagli uomini. È una cosa con la quale vivrò per il resto della mia vita. Con questo sentimento ci sono nato, e non posso cambiarlo, ma sfortunatamente non posso viverlo nel mio paese. Se torno in Iran sarò arrestato e messo a morte. Come Parham.

Dopo il rifiuto del governo inglese di concedergli l’asilo, Mehdi Kazemi è stato costretto a lasciare il territorio britannico. Voleva andarsene in Canada, ma è stato arrestato in Germania. Ora vive in Olanda, dove aspetta una risposta a una nuova richiesta d’asilo. Mehdi Kazemi ha 19 anni.

Fonte: IRQO (traduzione mia).

25 settembre 2007

"Non ci sono gay in Iran": li hanno già uccisi tutti?

Stanno facendo il giro del mondo in queste ore, soprattutto in internet, le dichiarazioni che il presidente iraniano Ahmadinejad ha rilasciato durante un dibattito alla Columbia University di New York: “In Iran non ci sono omosessuali come da voi” – ha affermato rispondendo alla domanda di uno studente – “Non abbiamo questo fenomeno, non so chi vi abbia detto che esiste da noi”. Come ha scritto anche Anelli (http://anellidifumo.ilcannocchiale.it), le risate fragorose che si sono levate dal pubblico sottolineano meglio di qualsiasi commento l’ipocrisia di Ahmadinejad, il quale, con la sua risposta, ha accuratamente evitato di affrontare la questione delle condanne a morte comminate agli omosessuali nel suo paese. Anche se molte esecuzioni avvengono ufficialmente per violenza carnale, in realtà è l’omosessualità il vero motivo della condanna. “Essere donna non è un crimine” – ha aggiunto poi Ahmadinejad, magnanimo, a proposito della condizione femminile in Iran – “le donne sono le migliori creature di Dio”.
Secondo Mathieu Szeradzki di Rue89 (http://rue89.com), che alle dichiarazioni del presidente iraniano ha dedicato un pezzo, “certe rappresentanze diplomatiche, in particolare quelle scandinave e quella italiana, sono di grande aiuto alla comunità omosessuale iraniana. Esse agiscono come possono, facendo pressione sul governo iraniano perché quest’ultimo faccia qualche concessione”.
E contro quelli che prenderanno a pretesto anche queste parole di Ahmadinejad per giustificare un eventuale intervento armato in Iran, ricordo come si espressero i redattori della rivista glbt clandestina MAHA in un comunicato (http://querelles.blogspot.com/2006/09/un-messaggio-dalliran.html) risalente a più di un anno fa: “Esprimiamo la nostra più forte opposizione a ogni intervento o azione militare contro il nostro amato paese, l’Iran. Non aiuterà la battaglia democratica qui ma rafforzerà soltanto la posizione dei capi religiosi conservatori. La guerra metterà fine alle possibilità di riforma. Le autorità userebbero il pretesto della ‘sicurezza nazionale’ per sopprimere ogni dibattito e ogni dissenso, compreso il lavoro delle persone LGBT iraniane”. Prima di decidere in nome di quelli che, quando ci torna utile, amiamo chiamare oppressi, li si ascolti.

[P.S. Mi scuso per i link inseriti tra parentesi, non riuscivo a fare diversamente caricando il video da Youtube].

22 settembre 2007

Gay esibizionisti o polizia guardona?

26 maggio 2005, Haute Goulaine, periferia di Nantes. La polizia sta effettuando un controllo presso l’area di sosta chiamata “Le passage”, un luogo d’incontro gay. Nel parcheggio, i poliziotti trovano due automobili; dei loro proprietari, però, nessuna traccia. Decidono allora di inoltrarsi nel boschetto che circonda l’area ed è proprio lì che li sorprendono: sono due uomini e stanno avendo un rapporto sessuale. Immediata la denuncia per “exhibition sexuelle”, un reato del codice penale francese simile a quello, previsto in Italia, di “atti osceni in luogo pubblico”: “L’esibizione sessuale imposta alla vista altrui in un luogo accessibile allo sguardo pubblico è punita con un anno di prigione e 15000 euro di multa” (articolo 222-32).
Appena qualche giorno dopo, il 2 giugno 2005, ad essere fermati dalla polizia nella stessa area di sosta sono altri due uomini, questa volta di 28 e 40 anni. Il reato è sempre quello: esibizione sessuale.
Pensate che il tribunale di Nantes, una volta che i due procedimenti sono arrivati davanti al giudice, abbia condannato le due coppie? Ebbene, vi sbagliate. Nel primo caso, infatti, è stato lo stesso procuratore a escludere che il reato fosse stato commesso, dal momento che i presunti colpevoli, al momento del fermo, si trovavano “al riparo da possibili sguardi”. Il 4 ottobre, quindi, i due vengono dichiarati innocenti. L’8 dicembre viene scagionata anche l’altra coppia, nonostante il procuratore avesse chiesto una multa per entrambi gli imputati.
Se cito questi casi giudiziari, è perché mi preme tornare sulla vicenda di Roberto e Michele, i due ragazzi che quest’estate, a Roma, sono stati denunciati per atti osceni in luogo pubblico. Com’è noto, gli agenti che li hanno fermati nei pressi del Colosseo, sostengono che i due sono stati sorpresi mentre stavano avendo un rapporto orale; Roberto e Michele, invece, affermano di essersi semplicemente baciati. Nella polemica scoppiata subito dopo la pubblicazione del caso, alcuni fatti mi hanno lasciato molto perplesso. Innanzitutto le prese di posizione di chi pensa che non si possa né si debba mettere in dubbio la versione fornita dalle forze dell’ordine, alle quali bisogna credere sempre e comunque. Se fosse per loro, dunque, avremmo dovuto berci anche la storia dei manifestanti responsabili di violenze, presenti alla scuola Diaz il 21 luglio 2001 a Genova, quando la polizia massacrò di botte decine di persone inermi e introdusse essa stessa in quell’edificio le prove che sarebbero poi servite a corroborare la tesi della necessità dell’“intervento”.
Più di tutto, però, mi ha stupito la durezza con la quale alcuni gay hanno reagito a questa notizia, dicendo sostanzialmente: le manifestazioni di solidarietà sono inutili, se sono colpevoli devono pagare, come tutti. Come si fa, infatti, a non prendere in considerazione il contesto di crescente omofobia nel quale una vicenda come quella si è verificata? Qualcuno può credibilmente sostenere che, in un paese dove è lo stesso legislatore a perpetuare l’omofobia di Stato, quest’ultima non intacchi minimamente le forze dell’ordine? Ammettiamo pure per un attimo che Roberto e Michele non si stessero solo baciando quando la polizia ha illuminato la scena con un faro: potremmo affermare che i due stessero davvero esibendo il loro atto sessuale? Era davvero così pubblico quel luogo, se Roberto e Michele, com’è probabile, non erano direttamente visibili? Lo so benissimo che qualsiasi avvocato, codice italiano alla mano, a queste due ultime domande risponderebbe di sì. Invece, secondo uno degli ex imputati dei casi francesi esposti sopra, “per parlare di esibizione bisogna che si verifichino necessariamente due condizioni: imporla alla vista altrui e in un luogo accessibile al pubblico. Ecco,” – ha aggiunto – “io non mi sono esibito, semmai mi sono nascosto”. E il giudice gli ha dato ragione. Perché in Italia non è possibile applicare il medesimo buon senso? La risposta è scontata: perché nel nostro paese l’ipocrisia e l’omofobia – o, se volete applicare lo stesso ragionamento ad alcuni altri casi di “atti osceni in luogo pubblico”, la sessuofobia – pervadono tutto. Sarebbe bene che almeno noi gay le respingessimo con forza al mittente, senza ascoltare le sirene di un’insensata e illusoria ansia da integrazione.

08 settembre 2007

Quattro passi... su internet

Hola a tod@s! Qualcuno nei commenti al post precedente ha gentilmente insinuato che il mio riposo estivo sarebbe durato fin troppo a lungo. Ahimè, non è affatto così, purtroppo. Mi sarebbe piaciuto molto starmene ancora lontano da qui, lasciarmi pervadere da altri pensieri piuttosto che da quelli strettamente legati alle incombenze quotidiane, che in questo ultimo periodo si sono fatte particolarmente pesanti. È dovuta a questo, a un po’ di fatica in eccesso, la mia assenza prolungata da questo blog (e dai vostri, che continuo comunque a seguire con molto interesse). Però ora son tornato e se questa sia una minaccia o una buona notizia (o semplicemente una novità del tutto irrilevante), lo stabilirete voi.
Intanto mi piacerebbe raccontarvi da dove vi scrivo questo primo messaggio del rientro. Oggi avevo voglia di svagarmi un po’, uscire di casa, prendere un po’ d’aria, approfittando anche del primo giorno di sole che Parigi mi regala da quando le vacanze sono finite. Ho quindi deciso che avrei navigato su internet... comodamente seduto in un parco. Dal luglio scorso, infatti, Parigi si è dotata di un servizio di wi-fi che permette a chiunque abbia un computer portatile, di collegarsi gratuitamente alla rete da innumerevoli luoghi pubblici sparsi in tutta la città. Eccomi dunque su una panchina del Parc de Bercy, immerso nel verde, distratto di tanto in tanto solo dal fruscio delle foglie o dal tump-tump-tump degli adepti del footing.
Per arrivare sin qui ho utilizzato Velib’, il noleggio automatizzato di biciclette del comune. Unico neo di questa nuova iniziativa – fortemente voluta dal sindaco Bertrand Delanoë, le cui “azioni” vengono date in crescita all’interno del moribondo Partito socialista – , è il costo. Prima di potersi sedere sul sellino, infatti, è necessario acquistare un abbonamento (della durata di un giorno, una settimana o un anno). Inoltre, ogni volta che si prende in prestito una bici, si deve pagare una quota di noleggio corrispondente al tempo di utilizzo: la prima mezz’ora è gratis, la seconda costa un euro, la terza due euro e la quarta quattro euro. Oltre al costo dell’abbonamento, dunque, tenere una bicicletta per due ore significa sborsare altri sette euro. Non proprio un regalo.
Molti parigini, quindi, si organizzano così: prendono un abbonamento da ventiquattr’ore (un euro), utilizzano una bicicletta solo per mezz’ora (gratuita), raggiungendo la stazione di noleggio più vicina al luogo di destinazione (le stazioni sono talmente numerose e ben distribuite, che lo spazio da percorrere a piedi sarà sicuramente ridotto). Trascorso qualche minuto, è possibile prendere un’altra bicicletta e utilizzarla gratuitamente per un’altra mezz’ora. Ed è quello che farò ora. A plus!