Catania Pride 2008 - 5 luglio

28 settembre 2006

Il mio PaCS - Seconda tappa: il certificat de coutume

I francesi si lamentano quasi quotidianamente del loro apparato burocratico, ma forse non sono mai entrati al Consolato italiano a Parigi. Qualche giorno fa, io e Staou ci siamo andati nuovamente con in mano quello che credevamo fosse il documento decisivo: il nostro atto di nascita. Era stato facile ottenerlo: una chiamata al mio comune d’origine e un’altra a quello del mio dolce intero, e dopo qualche giorno ecco planare, nella nostra buca delle lettere, le preziose carte. Sottolineo: copia integrale conforme dell’atto di nascita originale, non un volgare estratto – visto che proprio quello è il documento che viene richiesto dall’amministrazione francese per poter firmare un pacs.
Quando sale all’ormai celebre secondo piano del consolato, Staou è nervoso. Ha un appuntamento importante alle undici, fuori città. Sembra realizzare solo in quel momento che sono già le nove e un quarto e che le avventure di questo tipo sai quando cominciano ma non sai né quando né come possano finire. E difatti la tensione cresce rapidamente. Sulla porta dell’Ufficio Stato Civile e Cittadinanza è stato appeso un grazioso cartello che recita: “Stop! Si prega di non bussare, attendere nella sala d’aspetto il proprio turno”. Il problema è che da lì, per alcuni lunghi minuti, non esce proprio nessuno, mentre l’atrio comincia a popolarsi.
Passa la prima persona, poi la seconda. Quando finalmente chiamano il nostro numero, mi metto a gesticolare verso Staou, che nel frattempo, per parlare al cellulare con un collega, si è piazzato tra l’ascensore e le scale, cioè il posto più lontano possibile dall’agognata soglia presso la quale si trova ora l’impiegata. “Stato civile!” grida seccamente, mentre il mio dolce intero, beato, non si accorge di nulla. Quindi vado a prelevarlo quasi con la forza e in un attimo siamo inghiottiti nel Grande Ufficio.
Questo lo conoscete già, perché ve l’ho già descritto dopo esserci stato la prima volta. Ricordate? Luminoso, amplissimo, tutto in legno che scricchiola, mobili antichi, grande terrazza con la bandierona... L’impiegata ci fa accomodare in una stanza annessa, più piccola. Prima di rivolgerci la parola, rovista nervosa fra le sue carte. Poi, con voce rauca:
- Ditemi.
- Siamo venuti per un certificat de célibat o un certificat de coutume...
- ...
- ... ci serve per firmare un pacs.
- Allora, intanto il pacs non è riconosciuto in Italia!
- Sì, sì, lo sappiamo.
- Mmh! E che cosa volete?
- Un certificat de célibat o un certificat de coutume.
- No, allora, noi qui facciamo il certificat de coutume, perché il certificat de célibaaaat... (fa ruotare la mano destra fissandoci negli occhi come a dire: “è tutta un’altra cosa, non sapete di cosa state parlando”). Mmh.
- Ecco, in effetti tra i documenti che il Tribunal d’instance richiede per firmare un pacs c’è scritto un certificat de célibat o un certificat de coutume...
- (Si spazientisce) No, qui facciamo il certificat de coutume e io ho bisogno di...
- Sì, degli atti di nascita, eccoli.
- (Osserva le copie degli atti di nascita e le relative fotocopie tradotte in francese da una traduttrice accreditata presso la Corte d’Appello di Parigi. Scuote la testa. Ripetutamente) No! Io ho bisogno degli estratti di nascita plurilingui!
- Ma mi scusi, questo è l’atto originale interamente tradotto... è meglio che un semplice estratto, no?
- No, no, non va bene! Qui non ci sono le annotazioni a margine!
Ed è il panico. Rapido scambio di sguardi tra me e Staou. Decido che questa storia delle notarelle non passerà.
- Ma le annotazioni a margine, quando esistono, sono presenti anche sull’atto originale!
- (Scuote la testa, alza la voce, si altera) No! Negli estratti sono in basso e io qui non le vedo!
- Ma come, vede qui? È lo spazio per le annotazioni in un atto di nascita e...
- Io qui non vedo niente!
- Ma è perché non ci sono annotazioni! Vede? Lo ha scritto pure la traduttrice che non ci sono annotazioni a margine! Ma lo spazio c’è, è qui, proprio “a margine”!
- Ma insomma! Noi abbiamo sempre fatto con gli estratti plurilingui! Ora il collega che lo fa di solito è in vacanza... chiedo alla collega! (Urla il nome della collega che si trova nell’altra stanza e che si precipita immediatamente da noi). Guarda, per un certificat de coutume, è per un pacs, hanno portato gli atti di nascita... ma che, vanno bene?
- (La guarda stranita e apre le braccia) E chennesò? Non lo so, non ho idea, io non le ho mai fatte ‘ste cose!
- Vabbè, ho capito, vado a chiedere giù.
Spariscono e per noi comincia una lunga attesa. Tutto dipende da “giù”. Temiamo che “giù” tiri una brutta aria e che s’impuntino. Abbiamo tutto il tempo di ragionare su questo paradosso, una questione filosofica che non siamo ancora riusciti a sciogliere: ma perché un estratto andrebbe bene e non invece un documento più completo, cioè l’atto di nascita originale? Perché le annotazioni dovrebbero comparire su un banale estratto dell’atto, ma non sulla copia dell’originale? Perché le autorità francesi chiedono espressamente un atto di nascita completo e non il semplice estratto, mentre il consolato italiano accetta solo quest’ultimo ma rifiuta l’altro?
Torna. Confabula nell’altra stanza con la collega che non sa. Si dirige verso di noi e resta silente. Quei secondi a Staou devono sembrare un’eternità, anche perché ormai il ritardo al suo appuntamento è assicurato. È lui, quindi, a rompere gli indugi e con aria fintamente bonaria lancia:
- Allora, viene a portarci buone notizie?
- (Sguardo arcigno. Cenni d’assenso col capo). Lo facciamo con questo. Adesso vediamo con la mia collega... (Urla il nome della collega che si trova nell’altra stanza). Senti, lo facciamo con questo. Che, lo firmi tu?
- Eh? No, ma io non ho la firma per i certificat de coutume, non posso firmarli io.
- Vabbè, vabbè, lo firmo io. Allora, voi andate di là con lei, che vi fa il certificat. Quanti ne facciamo, uno o due?
- Mah, due direi, visto che ne serve uno ciascuno.
- Strano, di solito per i pacs io ne faccio uno solo...
- (Interviene la collega saggia) Ma forse è perché di solito si tratta di pacs tra una persona italiana e un’altra di una nazionalità differente, quindi facciamo il certificato solo per quella italiana... ma siccome loro sono due italiani... ne facciamo due, no? Che dici?
- Boh! Vabbè... Io non ho capito, ma insomma... come volete!
Staou chiede di potersi congedare per andare al suo appuntamento (“sì, infatti, ho visto che guardava l’orologio tutto il tempo!”) e mi lascia solo con l’impiegata saggia, quella che deve materialmente redigere il certificato. È simpatica e mi confessa che in effetti non lavora mai in quell’ufficio, è lì solo per sostituire un collega che è in ferie. La persona con la quale abbiamo “parlato”, invece, è appena arrivata. Le cose, ora, sono un po’ più chiare.
Il clima si fa più disteso, anche perché vedo la meta avvicinarsi. Oddìo, a dire il vero qualche problemino c’è ancora: non si trovano i punti metallici per la spillatrice. Cercano in tutti i cassetti, invano, quindi decidono di andarli a chiedere in un ufficio vicino. Infine spillano i due documenti, li timbrano, li firmano, poi mi fanno scendere al piano terra, per un passaggio in cassa.
Sono ormai le dieci e tre quarti: il sequestro di persona subìto quella mattina ci è costato 49 euro e 58 centesimi moltiplicato per due, cioè 99 euro e 16 centesimi, né più né meno. D’altronde l’impiegata ci aveva avvertito: “Voi ne volete due, ma poi non dite che vi abbiamo fatto pagare troppo, eh!”.

Nota. Il certificat de legislation et de coutume è un documento redatto in lingua francese dal Consolato, nel quale si certifica qual è la maggiore età in Italia e quali sono le annotazioni a margine previste da un atto di nascita italiano. Tutto qui. Ma alla fine si precisa anche: “Il Pacte Civil de Solidarité non è assimilabile ad alcuna norma prevista dalla legislazione italiana. Pertanto non produce alcun effetto giuridico nei confronti della legge italiana” [traduzione mia]. È il marchio della vergogna, insomma. Nero su bianco, con tanto di timbro col simbolo della Repubblica.

Precedenti: Partenza, Prima tappa.

27 settembre 2006

Sipario su Nouchet

Ieri la procura della Repubblica di Béthune, nel dipartimento Nord-Pas-de-Calais, ha archiviato il caso di Sébastien Nouchet. Trasformato in torcia umana nel giardino di casa sua, era finito in coma all’ospedale con delle ustioni di terzo grado. Sopravvissuto per miracolo, aveva affermato di essere stato aggredito da tre uomini che lo avrebbero cosparso di benzina e avrebbero poi appiccato il fuoco. Il movente: l’omofobia. Nouchet e il suo compagno avevano già subito in passato alcune aggressioni e diversi atti vandalici nella loro casa. Quel giorno, però, il gesto era sembrato il più grave di tutti, un tentato omicidio. Era il 16 gennaio 2004 a Nœux-les-Mines, dodicimila anime nell’estremo nord della Francia.
Le associazioni glbt si mobilitano allora massicciamente, le manifestazioni più grosse si svolgono a Lille, a Lyon e nella capitale, per chiedere il riconoscimento del principio d’uguaglianza e misure decisive contro l’omofobia da parte del governo. Mentre il presidente Chirac, “profondamente indignato”, invia una lettera al compagno di Nouchet, comincia il lungo cammino legislativo che porterà, nel dicembre di quell’anno, ad approvare la legge che punisce le affermazioni omofobe.
Nel frattempo parte l’inchiesta, durante la quale l’associazione SOS Homophobie si costituisce parte civile. Nouchet crede di riconoscere in Yannick Cornuel uno degli aggressori. In effetti l’uomo ha già un precedente, e di peso: ha scontato sei mesi di carcere per aver usato violenza, nel 2002, contro lo stesso Nouchet e il suo compagno. Cornuel verrà però rilasciato per assenza di prove, mentre un altro presunto aggressore ha un alibi inconfutabile: quel 16 gennaio si trovava, infatti, in carcere.
L’atteso epilogo è giunto ieri, con l’archiviazione del caso perché non si è riuscito a raccogliere, durante l’istruttoria, un numero sufficiente di “circostanze probanti”. E una parte della destra, quella che ha visto di cattivo occhio l’approvazione della legge contro l’omofobia, agita ancora una volta i vecchi dubbi sulla sincerità di Nouchet: già nel maggio 2005 il settimanale L’Express, in un dossier dal titolo “L’enigma Nouchet”, aveva ricordato, tra le altre cose, i suoi 19 tentativi di suicidio o il fatto che in passato piccoli incendi dolosi fossero scoppiati nelle vicinanze dell’abitazione che Nouchet e il suo compagno occupavano prima di trasferirsi a Nœux-les-Mines.
Indizi molto labili per poterne dedurre la malafede della vittima. “Gli si fa pagare la sua vecchia depressione, mentre non si tiene in nessun conto il passato omofobo di Cornuel!”, aveva dichiarato in quell’occasione l’avvocato di SOS Homophobie, Caroline Mécary. Ora – afferma – il non luogo a procedere “era prevedibile, vista la mancanza di elementi materiali. [...] Bisognerebbe chiedersi se ci si è dati tutti i mezzi per riunirle, queste prove”. Qualche grave mancanza dell’inchiesta è in effetti emersa: gli inquirenti, ad esempio, subito dopo il crimine, non hanno isolato il luogo dove questo è avvenuto, per poter analizzare tutti gli indizi che vi si fossero trovati. Inoltre, tre mesi sono stati fatti passare dopo che Nouchet aveva riconosciuto in alcune fotografie le immagini dei suoi presunti aggressori, prima di cominciare le intercettazioni telefoniche nei loro confronti. Com’era ovvio attendersi, queste non hanno prodotto alcun risultato apprezzabile.
Secondo l’avvocato Mécary, Sébastien Nouchet, che si è rinchiuso in questi giorni in un totale riserbo, sta vivendo quest’archiviazione “come una negazione della sua storia”. Come dargli torto?

Fonti: L'Express, Têtu.

26 settembre 2006

Terrore nei cieli

Che l’omofobia si annidi ovunque, è cosa risaputa. Che la stupidità umana non abbia riguardi per la professione delle persone che la manifestano, anche questo è noto. Ma che la totale mancanza di senso del ridicolo rischiasse di causare un dirottamento aereo, questo poteva avvenire solo nei favolosi falsiallarmi di mirumir. Almeno fino a ieri, quando si è appreso che il 22 agosto scorso la presenza di due ragazzi a bordo di un volo dell’American Airlines tra Parigi e New York ha seminato il panico tra l’equipaggio.
I due, infatti, erano in atteggiamento sospetto, anzi, sospettissimo. Allarme rosso. No, niente barbe, corani o zainetti. Pare invece che i pericolosi individui congiungessero le loro mucose labiali (e le lingue?!? Oddiommìo!) in quelli che inequivocabilmente sono stati interpretati come “baci”. I diretti interessati hanno poi aggiunto l’aggettivo “casti”. Poco importa. Era un ingegnoso espediente destinato a dissimulare un devastante atto terroristico, è chiaro!
È proprio questo che deve essersi detta la più arguta delle hostess. Fiondandosi sui poveretti, infatti, li ha apostrofati con un: “Baciarsi in un aereo è inopportuno”. Ah, però, e noi che non lo sapevamo...
L’allarme è salito ancora quando l’hostess si è accorta che i due figuri erano spalleggiati da una coppia di complici formata da individui del medesimo sesso (maschile, per la precisione). Con grande sprezzo del pericolo, l’hostess ha lanciato allora l’ultimo avvertimento: o la smettevano con i loro atti chiamati “baci”, oppure l’aereo sarebbe atterrato immediatamente. Ma nella sua lotta per il Bene e contro il Male, fortunatamente, Superhostess non era sola: il capitano è accorso in aiuto e ha proclamato più che realistica la minaccia proferita dalla sua eroina.
Tutto si è chiarito quando i giornalisti della rivista francese Têtu hanno chiamato i responsabili dell’American Airlines per avere ragguagli sull’incidente. Ah, meno male, direte voi. Mmh... “Dal momento che il livello di allarme per i voli è elevato,” – hanno dichiarato serafici i grandi capi – “dobbiamo fare il massimo per garantire a tutti un viaggio sicuro e gradevole. I comportamenti perturbatori sono inaccettabili, quale che sia il genere e l’orientamento sessuale dei passaggeri coinvolti”.
Ah, grazie per averci rassicurato: non di omofobia si trattava, ma di baci-canaglia. Allora le coppie di qualsiasi genere e orientamento sessuale avranno cura di prendere nota di questo episodio e, fossero mai tentate di manifestare affetto su un volo dell’American Airlines, facciano attenzione: la probabilità di essere paracadutate a Guantanamo risultano piuttosto elevate.
Altra soluzione? Boicottare American Airlines.

Fonte: 360°, Têtu.

20 settembre 2006

Saluto al Lettore Unico

Ché tanto lo so che è così.
Osservo la calma piatta che regna nel mio conto ShinyStat e penso: congiura.
Ma Lei, che tutto può, non potrebbe fare ancora qualcosa, un petit coup de main?
Abbia una bella giornata, professo’!

Un incontro mancato

Una discussione che degenera sotto i miei occhi e l’impossibilità, per me, di farci qualcosa. Poi un gran silenzio e il pensiero di un’incomunicabilità orrenda. Scomoda, soprattutto ieri sera: una cena insieme dopo settimane, dopo che la ferita non rimarginabile è comparsa nella sua vita.
Nel silenzio la certezza che le cose che avrei forse voluto dirgli davvero, hanno evitato di transitare dall’interno verso l’esterno della mia bocca. Invece le ho deglutite insieme al vino. E mi chiedevo se stesse provando la stessa sensazione, se per caso non stessimo recitando diligentemente, insieme ai nostri due complici, il nostro ruolo nel Grande Diversivo, la tragicommedia messa in scena a un solo scopo: preservarci tutti dal suo dolore.
Mi dispiace per questa stupida mancanza di coraggio. E me ne vergogno anche un po’.

19 settembre 2006

Gerusalemme, 10 novembre 2006

Gli attivisti e le attiviste dell’associazione glbt Open House di Gerusalemme ce l’hanno fatta: la marcia del World Pride si terrà il 10 novembre prossimo. Lo ha stabilito ieri la Corte Suprema israeliana, dopo un negoziato durato circa tre ore tra l’associazione stessa, la polizia e il comune.
Gli organizzatori del pride, che si è svolto intorno alla metà di agosto e il cui evento principale, cioè la marcia, era stato annullato a causa della guerra tra Israele e Libano, avevano in seguito puntato sul 21 settembre, ricevendo però il rifiuto della polizia: impossibile garantire la sicurezza della manifestazione – hanno sostenuto le autorità – data la coincidenza con una serie di festività religiose. A quel punto l’Open House ha proposto altre sei date, senza ricevere alcuna risposta da parte delle forze dell’ordine.
Ed è così che il gruppo glbt ha promosso una causa presso l’alta corte, la quale ha stabilito l’obbligo per il comune di Gerusalemme di collaborare all’organizzazione della marcia del 10 novembre e per la polizia quello di proteggerla adeguatamente.
La notizia ha suscitato la collera dell’esponente di estrema destra Baruch Marzel, il quale ha addirittura invocato una “guerra santa contro questo evento”: “Faremo tutto il possibile per impedire la parata”, ha affermato. Dal canto suo, il giornalista ultraortodosso Yitzhak Weiss sembra riecheggiare, nelle sue dichiarazioni, le violente prese di posizione dei mesi scorsi da parte dei rappresentanti della religione ebraica, di quella cattolica e dell’islam, uniti nella condanna dell’omosessualità: “Immaginate di avere una parata simile in Vaticano o alla Mecca. A differenza di altre religioni noi non siamo violenti. Nessuno sta cercando di privar[e gay e lesbiche] dei loro diritti o di dire loro che cosa fare nelle proprie case. Ma anche in un paese occidentale se qualcuno cammina nudo per strada viene arrestato”.
Già in passato, del resto, la presenza della comunità glbt aveva disturbato non poco i sonni del sindaco di Gerusalemme, lo scarsamente friendly Uri Lupolianski, che aveva chiamato “devianti” i gay.
Di tutt’altro avviso la segretaria dell’Open House, Noa Satat, che ha parlato di “un successo nell’ampliamento della libertà di parola e dell’uguaglianza fra membri della comunità, nell’interesse di un Israele pluralistico e democratico”.
Un obiettivo ancora lontano dal realizzarsi pienamente, come dimostrano le contraddizioni in seno alla comunità glbt, portate alla luce dal conflitto tra Israele e Palestina. Il 9 agosto scorso, per esempio, un gruppo di attivisti dell’Open House aveva manifestato la propria solidarietà con i gay e le lesbiche palestinesi, per i quali è sempre più difficile partecipare alla vita dell’associazione a causa del muro di separazione fatto costruire dal governo israeliano. E il gruppo gay musulmano statunitense Al-Fatiha ha diffuso una lettera aperta nella quale dichiara di non poter “sostenere la partecipazione a un World Pride che si svolge in una Gerusalemme isolata, sotto il regime d’apartheid israeliano”.

18 settembre 2006

Il mio PaCS - Prima tappa: l'atto di nascita

“E a che cosa le serve?”.
“Devo pacsarmi”.
Il funzionario rimane impassibile. Un secondo dopo dice:
“Deve tornare qui con l’atto di nascita”.
“Non lo potete fare voi?”.
“No, mi dispiace, il consolato non può rilasciare atti di nascita, deve rivolgersi al suo comune”.
Mi trovo al secondo piano del Consolato generale d’Italia a Parigi. Benché quest’ultimo abbia sede in un vecchio palazzo di un quartiere residenziale molto ricco, l’ingresso e gli sportelli per i passaporti o le iscrizioni all’anagrafe dei residenti all’estero si trovano al piano terra, in un annesso moderno e squallido, in stile ASL. Lo conosco molto bene, avendoci passato diverse ore in attesa di pratiche che sarebbero arrivate inevitabilemente “fra una quindicina di giorni” o giù di lì.
Ma questo era prima di aver avuto bisogno di un “certificat de célibat”. Quel giorno, invece, l’usciere in fondo alla grande stanza mi porge un foglietto sul quale ha scritto un numero e non mi indica le solite seggiole davanti agli sportelli ma mi spedisce al secondo piano. Salgo le scale. Quando arrivo mi sembra di sbarcare in un altro secolo: silenzio, poca luce, legno, colonne, un grande tavolo in mezzo alla sala, niente sportelli ma tante porte. Chiuse. Quella sulla quale leggo “Ufficio Stato Civile” si apre improvvisamente. Un signore di mezza età con alcuni fogli in mano mi guarda e scompare rapidamente inghiottito in un altro ufficio. L’atrio è vuoto, se non fosse per un’altra persona seduta vicino al tavolo, l’aria rassegnata e lo sguardo perso a frugare nei propri pensieri.
Il funzionario torna e mi fa entrare nel suo ufficio immenso, dagli arredi austeri e scricchiolanti, finestra aperta su una terrazza. Cerco di capire in che anno esattamente si trovi imprigionato quel luogo percorrendo i quadri appesi alla parete. Che strano, mi dico, dov’è finito il ritratto del re?
Senza aspettare un cenno da parte sua mi siedo e comincio a spiegargli che ho bisogno di un “certificat de célibat”, cioè un documento che provi che io non sono sposato nel mio paese d’origine. Mi chiede il motivo della mia richiesta ed io, simulando tranquillità, gli rispondo che è per un pacs. Ma sono diffidente, mi aspetto che mi dica, dalla portaerei dietro la quale nel frattempo si è seduto, che “se è per un pacs, non ci pensi neanche, non rilasciamo questo genere di documenti per la firma di contratti che l’Italia nemmeno riconosce”. Una reazione simile mi sembra illegittima, eppure possibile.
Fortunatamente il mio timore è infondato, il funzionario rimane del tutto indifferente. Che io stipuli un pacs in Francia non sembra turbarlo per niente. Chissà però se lo sfiora il pensiero di quanto ritardo lo Stato che lui rappresenta abbia accumulato su questo tema. E quanto ritardo si prepara ad accumulare ancora, mentre uno strumento come il pacs appare sorpassato persino qui in Francia, dopo l’approvazione del matrimonio tra persone dello stesso sesso nella vicina Spagna.
Ed è così che qualche giorno dopo io e il mio compagno abbiamo faxato le richieste ai nostri comuni per ottenere l’atto di nascita. Ricevuti nei giorni immediatamente successivi i due preziosi documenti, li abbiamo affidati alle doverose cure di una “traduttrice giurata presso la Corte d’Appello di Parigi”, la meno cara sulla piazza: 80 euro in tutto.
E adesso ci prepariamo alla prossima tappa: il consolato italiano (again).

Precedente: Partenza.

15 settembre 2006

Fallace

Oriana Fallaci a proposito del matrimonio fra persone dello stesso sesso: "come i musulmani vorrebbero che tutti diventassimo musulmani, loro vorrebbero che tutti diventassimo omosessuali".

14 settembre 2006

Arrestato il segretario di Gay Albania

Il 17 agosto scorso la polizia di Tirana ha arrestato il segretario dell’associazione Gay Albania Society, Naser Saidik Almalak, insieme ad altre tre persone, tra cui un diciottenne. Secondo le forze dell’ordine, i quattro sono stati fermati per atti osceni in luogo pubblico.
La notizia è filtrata appena ieri, secondo ciò che ho potuto apprendere consultando internet, grazie a un comunicato diffuso dall’Albanian Human Rights Group (Grupi Shqiptar i të Drejtave të Njeriut, in albanese), il quale ricorda che la detenzione immediata è possibile solo in caso di flagranza di reato. Tuttavia, le forze dell’ordine non avrebbero fornito alcuna prova che quest’ultimo sia effettivamente avvenuto.
Nel comunicato dell’AHRG non si precisa la durata della permanenza in prigione inflitta ai quattro, tuttavia non dev’essere stata breve, dal momento che gli arrestati sono stati assegnati più volte a differenti celle e che uno di loro ha anche tentato il suicidio a causa delle cattive condizioni di detenzione.
L’omosessualità, che in precedenza era punita con 10 anni di carcere, è stata depenalizzata nel 1995, ma la società albanese resta in gran parte ferocemente omofoba. L’AHRG denuncia “il comportamento e il trattamento discriminatorio delle forze di polizia” verso gay e lesbiche ed esprime “la propria opposizione a ogni violazione dei diritti legali individuali”.
Di questi abusi era rimasto vittima lo stesso Naser Almalak, quando, il 7 aprile 2001, era stato malmenato da quattro uomini della Guardia Repubblicana a causa della sua omosessualità. Secondo una commissione internazionale di giuristi, nuovi insulti e minacce da parte di altri membri della Guardia Repubblicana erano giunti in seguito, quando Naser Almalak aveva osato protestare per il trattamento subito.
In Albania la repressione antiomosessuale sembra ben radicata ovunque, sul lavoro, nell’amministrazione pubblica, in famiglia. Ed è stata proprio l’omofobia a spingere il presidente di Gay Albania Society, Bashkim Arapi, a togliersi la vita il 17 agosto 2002, con una dose di veleno.

13 settembre 2006

Campagna omofoba in Uganda

Immaginate di aprire un giornale e di trovarvi pubblicato il vostro nome e il vostro indirizzo. E, subito a fianco, l’etichetta: “gay” o “lesbica”. Aggiungete che il giornale in questione promette di ricoprirvi di vergogna e che vivete in un paese nel quale l’omosessualità è condannata con l’ergastolo.
Quello che sembra solo un incubo è la triste realtà in Uganda, purtroppo. Il quotidiano popolare Red Pepper, infatti, ha pubblicato, l’8 settembre scorso, i nomi di 13 lesbiche di Kampala, e i loro indirizzi. L’invito alla delazione per dare la caccia ad altre donne con lo stesso orientamento sessuale non potrebbe essere più esplicito: “Per liberare la nostra patria da questo vizio mortale, ci siamo impegnati a denunciare tutte le lesbiche della città. Mandateci nome e professione della lesbica del vostro quartiere e noi la copriremo di vergogna”, scrive il quotidiano, mettendo persino a disposizione un numero di telefono per le segnalazioni. (Nota a margine: sul proprio sito, Red Pepper si vanta di essere stato nominato “giornale dell’anno”. Da chi e di quale anno, non è dato sapere; ma per quali meriti è facile evincerlo dalla spazzatura che pubblica).
Insomma, una vera e propria campagna omofoba, cominciata esattamente un mese prima, l’8 agosto scorso, con la pubblicazione di un'altra lista di nomi e indirizzi. Si trattava di quarantacinque “uomini a cui piace prendere gli uomini da dietro”, secondo la soave definizione fornita da Red Pepper. “Per la maggior parte di noi cittadini eterosessuali,” – ha scritto in quell'occasione il giornale – “si tratta di un peccato abominevole, in effetti è un peccato mortale che va contro la natura dell’umanità. (...) Parliamo di alcuni uomini di questa nazione che ripercorrono il cammino di Sir Elton Hercules John e dei suoi simili e che hanno il motore nella parte posteriore”.
La notizia di questa persecuzione comincia a circolare il 16 agosto, grazie al giornalista Habibou Bangré, che la pubblica in Francia, su Têtu. Dodici giorni dopo il gruppo Smug (Sexual Minorities Uganda) protesta ufficialmente con un comunicato diffuso sul sito dell’International Gay and Lesbian Human Rights Commission (IGLHRC), ricordando le pesanti conseguenze che la pubblicazione di quella lista ha comportato sulla vita dei quarantacinque gay messi alla berlina. Di sicuro, in almeno tre casi, le vittime di questa caccia all'omosessuale hanno dovuto subire le minacce e il rigetto da parte di colleghi e famiglie, afferma Amnesty International in un comunicato del 29 agosto.
Per nulla disturbata dalle proteste ma, anzi, ancor più zelante, la polizia ugandese ha nel frattempo arrestato cinque gay fra quelli che comparivano nella lista, e ne ricerca un altro a Jinja, la seconda città dell’Uganda. Di quest’ultimo, il 7 settembre scorso, Red Pepper non ha mancato di mostrare sulle proprie pagine la foto.
Le organizzazioni omosessuali temono che tutti questi siano altrettanti segnali di un giro di vite che il governo si appresterebbe a dare a gay e lesbiche ugandesi. Un anno fa il presidente Yoweri Museveni, al potere ininterrottamente dal 1986 ed eletto nel febbraio scorso in seguito alle prime elezioni libere, ha firmato un emendamento alla costituzione, che vieta espressamente il matrimonio fra omosessuali. Il suo primo ministro, Apolo Nsibambi, ha recentemente affermato che “importare dei valori del mondo occidentale è contrario alla nostra cultura. Sono felice di constatare che gli anglicani [31,9%, secondo un censimento del 2002; nota mia], la Chiesa cattolica [41,9%] e i mussulmani [12,1%] si sono uniti per opporsi all’omosessualità in Africa”. Quando si tratta di discriminazione omofoba…
Vedremo come andrà a finire. Anzi no, non stiamo a guardare. Il gruppo londinese OutRage! ci propone di inviare una e-mail di protesta a Arinaitwe Rugyendo, redattore capo di Red Pepper. La riproduco qui sotto. Potete copiarla, aggiornarla (nel primo capoverso manca, per esempio, un riferimento alla pubblicazione della lista di lesbiche l'8 settembre), firmarla e inviargliela.
Se il vostro nome fosse finito sulle pagine di quel giornale, è la dose minima di solidarietà che anche voi vi aspettereste dal resto del mondo. O no?

Fonti: afrolNews, Têtu.

Dear Arinaitwe Rugyendo,
I am writing to express my dismay that your newspaper outed 45 allegedly gay and bisexual men on 8 August, and that you may be planning to out a similar number of lesbian and bisexual women in the near future.
I fail to see any public interest justification for exposing adults engaged in consenting same-sex behaviour who have not caused harm to others and against whom no complaints of harm have been alleged. These individuals have been convicted of no crime. Your newspaper is inviting vigilante attacks on those who you have outed.
Naming these people risks causing them ostracism and rejection by their families, friends, workmates and neighbours.
It could cause them to lose their jobs and careers. It may put them at risk of violent attack by homophobes - perhaps even murder.
Fear of such adverse consequences could tip some of those named into depression and possibly even suicide.
I do not believe this is what you want or intend. I urge you to reconsider your actions and reflect on the suffering you have already caused.
Please put yourself in the position of the named individuals. You would not like someone to do this to you. Therefore, I urge you to not do it to others.
Please show respect and mercy towards a weak, vulnerable and margin ali sed lesbian and gay community, which already suffers great discrimination and violence.
How about showing tolerance and promoting understanding in the pages of your newspaper? That would be a far more honourable stance to take. It would bring Red Pepper much respect.
Yours sincerely,
...

10 settembre 2006

Ha detto "follia"?

Conosci il tuo nemico. Venerdì scorso Benedetto XVI ha tenuto a far conoscere, una volta di più, le sue posizioni contro l’aborto e il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Davanti ai vescovi canadesi riuniti in udienza in Vaticano, ha affermato: “In nome della tolleranza, il vostro paese ha commesso la follia di ridefinire il concetto di sposi e, in nome della libertà di scelta, si trova ad affrontare la distruzione di bambini non nati”. Più tardi, rivolgendosi all'ambasciatore cileno presso la Santa Sede, ha raccomandato ai dirigenti politici cattolici di non “sacrificare i principi dell’etica naturale alle effimere evoluzioni della società e ai sondaggi d’opinione”.
Per chi si fosse incautamente distratto, ecco la rassegna delle sue prese di posizione omofobe, limitata alle sole dichiarazioni pronunciate dalla sua elezione al soglio pontificio. Le “papate”, insomma.

1) 31 maggio 2005. “Conformemente ai piani di Dio, il matrimonio e la famiglia sono insostituibili e non ammettono nessun’altra alternativa. [...] L’alleanza nel matrimonio, attraverso la quale l’uomo e la donna costituiscono un’unione per tutta la vita, volta per sua natura al bene dei congiunti e alla generazione e all’educazione dei figli, è il fondamento della famiglia, patrimonio e bene comune dell’umanità”. Lo scrive in una lettera indirizzata al presidente del Consiglio pontificale per la Famiglia, Alfonso López Trujillo.

2) 6 giugno 2005. Chiesa di San Giovanni in Laterano. Denuncia “le forme moderne di dissoluzione del matrimonio come le unioni libere e il pseudo-matrimonio tra persone dello stesso sesso”. Ma quanto sarai pseudo tu, benedetto uomo!

3) 17 giugno 2005. Questa volta ce l’ha con la Svizzera. In una lettera all’ambasciatore del paese delle colline verdi, delle mucche viola, degli orologi, delle banche e delle famose guardie, scrive: “Sotto la pressione congiunta dei progressi tecnici e della volontà di una parte dell’opinione pubblica, nuove leggi sono state proposte in molti campi che riguardano il rispetto della vita e la famiglia”. Nel mirino: le leggi sull’aborto e l’approvazione dei PaCS.

4) 4 ottobre 2005. In versione vendicativa. Alcuni vescovi riferiscono che Benedetto XVI vorrebbe scomunicare non solo le coppie dello stesso sesso, ma anche i politici che le difendono. Sta forse pensando al primo ministro canadese Paul Martin, al primo ministro spagnolo José Luis Rodriguez Zapatero e a molti esponenti olandesi e fiamminghi cattolici favorevoli all’uguaglianza dei diritti. Che paura! Del resto, il parlamento olandese, che non è esattamente quello italiano, reagisce duramente ricordando che la chiesa è una cosa e lo Stato un’altra. Elementare, Romano.

5) 29 novembre 2005. Da qualche mese, dopo che The Observer ha pubblicato alcune indiscrezioni, si sa che il nostro sta redigendo un documento per escludere i gay dal sacerdozio. Adesso il testo viene finalmente reso pubblico: vi si afferma che i gay si trovano “in una situazione che è di grave ostacolo a delle relazioni corette con gli uomini e le donne”. Sono esclusi dal sacerdozio non solo coloro che abbiano rapporti omosessuali, ma anche chi manifesta “tendenze omosessuali profondamente radicate” oppure chi sostiene la “cultura gay”. Reazioni scandalizzate, anche nello stesso mondo cattolico.

6) 12 gennaio 2006. Le elezioni politiche in Italia si avvicinano e Ratzi non perde tempo. Mentre si prepara una manifestazione a favore dei PaCS davanti all’ambasciata francese a Roma, dichiara: “È un grave errore oscurare il valore e le funzioni della famiglia legittima fondata sul matrimonio attribuendo ad altre forme di unione dei riconoscimenti giuridici la cui esigenza sociale non rappresenta una vera realtà”. Papale! E ascoltato, purtroppo.

7) 11 maggio 2006. New entry: l'“amore debole”. “La comunione tra vita e amore, rappresentata dal matrimonio, diventa un bene autentico per la società. La necessità di evitare la confusione con altri tipi di unioni fondate su un amore debole diventa oggi particolarmente urgente”. È la versione insultante. Viene poi quella più professorale, cattedratica: “La differenza sessuale tra il corpo di un uomo e quello di una donna non è un semplice dato biologico, ma ha un significato più profondo: essa esprime quella forma d’amore con la quale l’uomo e la donna, divenendo una carne sola, possono realizzare un’autentica comunione di persone aperte alla trasmissione della vita e cooperare così con Dio alla generazione di nuovi esseri umani”. La Coop sei tu!

8) 20 maggio 2006. L’occasione è troppo ghiotta: il ricevimento del nuovo ambasciatore di Spagna in Vaticano, davanti al quale ribadisce “il diritto a nascere, a formare e a vivere in una famiglia, senza che questa sia soppiantata o sminuita da altre forme o istituzioni differenti”.

Con le affermazioni di due giorni fa, dunque, siamo alla papata numero 9. Non ho contato le dichiarazioni dei porporati amici suoi, per questioni di tempo e di noia. Ma questo personaggio va seguito, non credete? Questo blog avrà sempre un occhio di riguardo per il capocomico.

08 settembre 2006

Il mio PaCS - Partenza: il Tribunal d'instance

Pacsarsi. Verbo riflessivo ricavato dalla sigla PaCS, acronimo che sta per Pactes Civiles de Solidarité. Ufficialmente non rintracciabile nel vocabolario italiano. Oggetto assente dal nostro ordinamento giuridico. Scandalo permanente.
Epperò. Essendo giunta anche nello stivale, non si sa bene come, un’eco lontana, molto ovattata, dell’evoluzione delle società che lo circondano, da qualche tempo di PaCS discutono animatamente molte e molti esponenti di una delle classi dirigenti più ipocrite al mondo, quella italiana appunto. E sostanzialmente lo fanno per evitare una decisione, per allontanare il giorno nel quale si dovrà verificare a suon di voti quanto sia rispettato nel nostro paese il valore della laicità e quanto invece ancora contino i dictat vaticani. Abbiamo già sotto gli occhi molteplici indizi, perciò non ho motivo di dubitare che le genuflessioni continueranno. Anzi, aumenteranno.
E in Francia, intanto? Da quando la Spagna ha permesso anche alle coppie omosessuali di sposarsi, qui il dibattito si è inevitabilmente spostato sul pieno riconoscimento del diritto al matrimonio (dunque anche dell’adozione) per gay e lesbiche: Sarkozy, probabile candidato della destra alle presidenziali del 2007, dice di essere contrario; Ségolène Royal, possibile candidata socialista, ha abbandonato le precedenti riserve e si è espressa favorevolmente. Si vedrà.
Eppoi qui accade anche questo: io e il mio ragazzo, baldi giovani italiani, migrati nella terra di Egalité, Liberté e Fraternité, utilizzeremo presto il verbo di cui sopra, convinti che, oltre al sentimento reciproco, nel nostro rapporto rientrino anche alcuni problemi d’ordine amministrativo, fiscale, pratico, che si potrebbero facilmente risolvere firmando un PaCS. Anche a noi, così come a tutte quelle coppie che non possono o non desiderano sposarsi, lo stato francese riconoscerebbe in questo modo non un privilegio ma alcuni di quei diritti che concede agli sposi. Insomma, è un patto civile, anzi di civiltà, tra una repubblica e i suoi cittadini, tra la comunità e i singoli.
Un bel mattino d’agosto, dunque, mi sono fatto scarrozzare dal metrò fino alla fermata più vicina al Tribunal d’instance dal quale dipende il nostro quartiere. È lì infatti, al tribunale che tra le altre cose si occupa delle cause civili meno gravi, che dovremo far registrare il nostro PaCS, quando avremo raccolto tutti i documenti necessari.
Una volta trovato il grande e moderno edificio che cercavo, sono entrato. Dietro la porta, il deserto: solo un ampio ingresso, dall’arredamento non ancora completato. Nessuno in giro. Tutto lasciava credere che gli uffici del tribunale fossero appena stati trasferiti lì, in quella nuovissima sede. Imboccato un corridoio e fatto appena qualche metro, ho visto un impiegato intento a mettere ordine sulla sua scrivania.
È lui che mi ha accolto, parlandomi da dietro un ampio sportello intorno al quale non ho percepito la benché minima traccia di fila d’attesa. Cinque o sei documenti richiesti. Tre o quattro uffici diversi ai quali rivolgersi. La redazione del contratto fra me e il mio compagno. L’appuntamento per la firma, circa un mese dopo che il tribunale avrà verificato la presenza e la validità di tutti i documenti. A quel punto, probabilmente il prossimo ottobre, saremo pacsati.
Qualche minuto dopo ero già di nuovo in strada, a passarmi da una mano all’altra il fascicolo informativo che mi aveva lasciato. E a pensare alla prossima tappa.
Mi sembra che quella sera io e Staou fossimo più leggeri. E ci è venuta voglia di partire di nuovo. Così, per una breve vacanza. Per festeggiare un po’.

06 settembre 2006

Un messaggio dall'Iran

Il comunicato che ho tradotto e che riproduco qui di seguito è stato spedito esattamente un mese fa, il 6 agosto scorso, a tutti gli abbonati di MAHA, la rivista elettronica gay, lesbica, bisessuale e transessuale iraniana. È firmato dai redattori della rivista stessa, nata nel 2004 in forma cartacea e oggi distribuita in formato pdf. Io l'ho trovato sul blog del giornalista statunitense Doug Ireland; siccome mi pare che non abbia avuto molta eco in Italia, lo rilancio più che volentieri.
Particolarmente interessante mi sembra il passaggio nel quale i redattori di MAHA si dichiarano contrari a ogni guerra contro il loro Paese (l'ho messo in neretto). È un comunicato che dovrebbero leggere tutte quelle persone convinte che i principi democratici possano essere esportati a suon di bombe e che parlano sempre in nome dei popoli oppressi, dando però l'impressione di ascoltarli pochino.
Dopo la mia traduzione, il testo originale in inglese.

DAI REDATTORI DI MAHA
Notiamo alcune divergenze di opinione nel movimento internazionale di lesbiche, gay, bisessuali e transgender sul modo migliore per sostenere le persone LGBT in Iran. Ci piacerebbe esprimere il nostro punto di vista e crediamo che gran parte dei nostri lettori condivida la nostra opinione. La società iraniana si è sviluppata nonostante l’oppressione. La domanda di democrazia e di diritti umani sta crescendo nel nostro paese.
Crediamo che i diritti umani delle donne iraniane, degli studenti, dei lavoratori e delle persone LGBT non siano un fenomeno occidentale ma aspetti dei diritti umani universali e che siano importanti per la libertà umana, la dignità e la realizzazione di sè in Iran e nel resto del mondo.
Nonostante tutte le nostre difficoltà e i pericoli, la comunità LGBT iraniana sta diventando sempre più informata e sta esprimendo la sua domanda di diritti umani. Ci identifichiamo come persone LGBT e vogliamo le stesse libertà che le persone LGBT desiderano in tutto il mondo.
Non lasciate che nessuno dica che non esiste un’oppressione omofoba in Iran. Ogni persona LGBT iraniana è una potenziale vittima di arresto, prigionia, fustigazione ed esecuzione. Per evitare un destino simile, è necessario condurre una doppia vita e nascondere la propria sessualità. Anche se ci sono feste e riviste gay segrete, siamo tutt* a rischio. La più grande discrezione è il solo modo per tenere lontan* molt* di noi dalle galere delle autorità – se non peggio.
Ogni controversia sulle ragioni dell’esecuzione di Mahmoud e Ayaz a Mashhad nel luglio scorso [luglio 2005, n.d.t.] non cambia il fatto che l’esecuzione di uomini e donne che hanno relazioni sessuali con persone dello stesso sesso, è obbligatoria nel codice penale iraniano.
Per la precisione, crediamo che i due adolescenti siano stati impiccati a causa della loro omosessualità. Si sa bene che le autorità accollano false accuse alle vittime che poi condannano a morte. Invitiamo tutt* a non prendere mai per buone le accuse riportate dalle corti e sui giornali. Non sono veritiere. Nel luglio scorso, per esempio, un programma televisivo della BBC in Inghilterra ha mostrato in che modo le autorità iraniane hanno costruito delle false accuse contro Atefah Sahaaleh, che era stata uccisa a Neka nel 2004 per “crimini contro la castità”. Le corti iraniane hanno anche mentito sulla sua età, sostenendo che aveva 22 anni all’epoca della condanna a morte. In effetti ne aveva solo 16 – era minorenne, come Mahmoud e Ayaz.
Esprimiamo il nostro apprezzamento e la nostra ammirazione per gli sforzi congiunti ovunque nel mondo il 19 luglio per dare sostegno alle persone LGBT iraniane, contro l’oppressione omofoba e tutte le esecuzioni in Iran. Questi sforzi hanno dato a noi LGBT iranian*, speranza e ispirazione. Fa bene al nostro morale sapere che la gente in altri paesi si occupa di noi e preme sulle autorità iraniane per fermare la loro persecuzione omofoba.
Alcune autorità iraniane di primo piano hanno condannato pubblicamente le relazioni e il matrimonio fra persone dello stesso sesso, in seguito alle proteste dell’anno scorso contro le impiccagioni di Mashaad.
Ciò dimostra che le vostre proteste hanno qualche effetto.
Le autorità di Teheran sono preoccupate della cattiva pubblicità che stanno dando in tutto il mondo.
Per favore, non fermatevi. Le proteste internazionali sono utili e noi sollecitiamo tutti i gruppi in tutto il mondo a lavorare insieme per il bene comune delle persone LGBT iraniane.
C’è un’attività crescente delle persone LGBT iraniane, tanto all’interno che all’esterno dell’Iran, per informare la gente sulla diversità sessuale e il rispetto per l’orientamento sessuale degli individui. La nostra rivista elettronica fa parte di questo processo.
La comunità LGBT iraniana in esilio gioca un ruolo importante nella battaglia per i diritti LGBT in Iran. Crediamo che unità e cooperazione tra tutt* gli/le attivist* LGBT iranian* sia vitale e importante e noi sosteniamo questa unità.
I diritti LGBT sono parte dei diritti umani e saranno acquisiti in Iran con uno sforzo congiunto di tutt* gli/le iranian* per un Iran democratico e moderno. Il supporto internazionale alla battaglia di democrazia condotta all’interno dei confini iraniani, a ogni livello, è lodevole e utile.
Esprimiamo la nostra più forte opposizione a ogni intervento o azione militare contro il nostro amato paese, l’Iran. Non aiuterà la battaglia democratica qui ma rafforzerà soltanto la posizione dei capi religiosi conservatori. La guerra metterà fine alle possibilità di riforma. Le autorità userebbero il pretesto della “sicurezza nazionale” per sopprimere ogni dibattito e ogni dissenso, compreso il lavoro delle persone LGBT iraniane.
Nel nostro paese, le persone LGBT hanno bisogno di stringere alleanze con altri settori oppressi della popolazione che condividono il nostro impegno per la democrazia e i diritti umani. Sarebbe un errore concepire i diritti LGBT come separati dalla più vasta lotta umanitaria in Iran. L'isolamento del nostro movimento lo rmanterrebbe in uno stato di debolezza e marginalità. I diritti LGBT devono entrare a far parte della comune agenda democratica dell’Iran.
Crediamo che le persone LGBT iraniane abbiano bisogno di sostegno a ogni livello, tanto nazionale quanto internazionale – dall’ONU, dall’Unione Europea e dai governi nazionali, e dalle ONG per i diritti umani e dalle organizzazioni LGBT di tutto il mondo. Apprezziamo la vostra solidarietà.
La pressione internazionale sulle autorità iraniane a proposito dei diritti umani e dei diritti LGBT è utile e noi l’accogliamo con favore.
Dipingere i diritti degli/delle omosessuali in Iran unicamente come un fatto socio-culturale è nocivo per la nostra unità e per il successo della nostra lotta. Nella nostra visione, i diritti LGBT riguardano la giustizia sociale, culturale, economica, legale e politica. Non si può lottare per le persone LGBT e ignorare la discriminazione legale e il fatto che le autorità iraniane hanno fatto dell’orientamento sessuale un problema politico denunciando e dichiarando fuorilegge le relazioni tra persone dello stesso sesso, e punendo le persone LGBT con la prigione e la violenza, comprese le torture e l’impiccagione.
Non siamo d’accordo con chi sostiene che la questione LGBT in Iran sia un mero fatto culturale. I diritti delle persone LGBT sono anche un tema politico. La conquista dei diritti LGBT in Iran richiede un lavoro duro, tanto socio-culturale quanto politico – cambiare leggi e istituzioni, così come le opinioni e l’attitudine della gente.
Gli/le omosessuali iranian* sono oppressi dalle autorità. Ma in alcuni altri paesi musulmani, come il Libano e la Turchia, le persone LGBT possono formare gruppi propri, organizzare conferenze e pubblicare le loro informazioni. Questo mostra che una più ampia liberalizzazione è possibile in un paese musulmano.
Ecco perché noi crediamo fermamente che, nella situazione attuale, gli ostacoli principali ai diritti degli/delle omosessuali in Iran siano le leggi antiomosessuali. Ecco perché la rimozione della discriminazione contro le persone LGBT nel codice penale è essenziale. Aprirebbe la strada a un significativo miglioramento della vita delle persone LGBT cambiando la legge e rimuovendo la minaccia d’arresto e altri abusi. Abbiamo anche bisogno, per la guida del paese, di persone democratiche, riformatrici, che garantiscano il cambiamento del sistema educativo e dei media, affinché venga combattuto il pregiudizio omofobo e sia promossa la conoscenza e l’accettazione delle persone LGBT.
A causa dell’attuale repressione omofoba in Iran, non siamo in grado di esprimere apertamente la nostra domanda di diritti umani per le persone LGBT. Ecco perché la pressione della comunità LGBT internazionale sulle autorità iraniane, in segno di solidarietà con le persone LGBT iraniane, è ancor più essenziale e benvenuta.
Grazie per il vostro sostegno – MAHA

FROM THE EDITORS OF MAHA
We note some differences of opinion in the international lesbian, gay, bisexual and transgender (LGBT) movement about how to best support LGBT people in Iran. We would like to express our view, and we believe that a great number of our readers share our opinion. Iranian society has developed despite the oppression. The demand for democracy and human rights is growing in our country.
We believe that the human rights of Iranian women, students, workers and LGBT people are not western phenomenon but aspects of universal human rights and are important for human freedom, dignity and fulfilment in Iran – and everywhere.
Despite all our difficulties and dangers, the Iranian LGBT community is getting more and more informed and is expressing its demand for human rights. We identify as LGBT people and want the same freedoms that LGBT people worldwide want.
Let no one claim there is not homophobic oppression in Iran. Every LGBT Iranian is at potential risk of arrest, imprisonment, flogging and execution. Avoiding such a fate requires leading a double life and hiding one’s sexuality. Even though there are secret gay parties and magazines, we are all at risk. Great discretion is the only thing that keeps many of us from the jails of the authorities – and worse.
Any disagreement over the reason for the execution of Mahmoud and Ayaz in the city of Mashhad last July does not alter the fact that the execution of men and women indulging in same-sex relations is mandatory in the penal code of Iran.
For the record, we believe the two teenagers were hanged (left) because of their homosexuality. The authorities are well-known for pinning false charges on the victims they execute. We urge people to never take at face value the charges claimed by the courts and newspapers. They are not reliable. In late July 2006, for example, a BBC television programme in England exposed how the Iranian authorities made false allegations about Atefah Sahaaleh, who was executed in the city of Neka in 2004 for “crimes against chastity”. The Iranian courts even lied about her age, claiming she was 22 at the time of her execution. In fact, she was only 16 – a minor, like Mahmoud and
Ayaz.
We express our appreciation and admiration for the united efforts worldwide on July 19 in support of Iranian LGBT people, against homophobic oppression and all executions in Iran. These efforts gave us Iranian LGBTs hope and inspiration. It is good for our morale to know that people in other countries care about us and are pressing the Iranian authorities to halt their homophobic persecution.
Some prominent authorities here in Iran publicly condemned same-sex relationships and same-sex marriage, following last year’s international protests against the Mashhad hangings.
This shows that your protests are having an effect.
The authorities in Tehran are concerned about the bad publicity they are getting all over the world.
Please do not stop. International protests are effective and we urge all groups around the world to work together for the common good of LGBT Iranians.
There is growing activity by Iranian LGBTs, both inside and outside Iran, to enlighten people about sexual diversity and respect for individual sexual orientation. Our E-magazine is part of that process.
The Iranian LGBT community in exile plays an important role in the struggle for LGBT rights in Iran. We believe that unity and cooperation between all LGBT Iranian activists is vital and important and we advocate this unity.
LGBT rights are part of human rights and they will be achieved in Iran by a joint effort from all Iranians for a democratic and modern Iran. International support for the democracy struggle inside Iran, at every level, is laudable and helpful.
We express our strongest opposition to any military intervention or military action against our beloved county Iran. It will not help the democratic struggle here but only strengthen the position of the conservative religious hardliners. War would close down the opportunities for reform. The authorities would use the pretext of “national security” to suppress debate and dissent, including the work of LGBT Iranians
Within our country, LGBTs need to make alliances with other oppressed sectors of the population who share our commitment to democracy and human rights. It would be a mistake to see LGBT rights as separate from the broader humanitarian struggle in Iran. Isolating our movement would keep it weak and marginal. LGBT rights should be a part of the mainstream Iranian democratic agenda.
We believe that Iranian LGBTs need support at every level, both nationally and internationally – from the UN, EU and national governments, and from human rights, NGO and LGBT organisations worldwide. We value your solidarity.
International pressure on the Iranian authorities regarding human rights and LGBT rights is effective and we welcome it.
Portraying homosexual rights in Iran only as a socio-cultural issue is harmful for our unity and the success of our struggle. It is our view that LGBT rights are about social, cultural, economic, legal and political justice. One cannot fight for LGBT people but ignore discrimination in the law and the fact that the Iranian authorities have made sexual orientation a political issue by denouncing and outlawing same-sex relations, and by punishing LGBTs with imprisonment and violent abuse, including torture and
hanging.
We do not agree that the LGBT issue in Iran is purely a cultural matter. LGBT rights are a political issue too. Achieving LGBT rights in Iran demands hard work, both socio-cultural and political – changing laws and institutions, as well as changing people’s values and attitudes.
Iranian homosexuals are oppressed by the authorities. But in some other Muslim countries, like Lebanon and Turkey, LGBT people are able to form their own organisations, organise conferences and publish their information. This shows that greater liberalisation is possible in a Muslim country.
That is why, we strongly believe that in the current situation, the central obstacles against homosexual rights in Iran are the anti-homosexual laws. That is why the removal of discrimination against LGBT people in the country’s penal code is vital. It would pave the way for a significant improvement of LGBT people’s lives by changing the law and removing the threat of arrest and other abuses. We also need democratic, reform-minded people to lead the country and to secure changes in the education system and the media to combat homophobic prejudice and to promote understanding and acceptance of LGBT people.
Due to the current homophobic repression in Iran, we are unable to openly express our demand for LGBT human rights. That is why international LGBT pressure on the Iranian authorities, in solidarity with Iranian LGBT people, is most vital and welcome.
We thank you for your support – MAHA

Fonte: Direland.

05 settembre 2006

Chi tocca il Papa...

Ritorno sui fatti di domenica scorsa a Parigi (vedi il post precedente, Omofobia: Delanoë Papa subito! del 4 settembre 2006), perché ieri sera ho incontrato brevemente tre Pantere Rosa e abbiamo parlato un po' di quello che è accaduto. Riporto ciò che mi hanno raccontato.
La polizia, che domenica ha fermato un'ottantina di persone trattenendole per circa quattro ore in diversi commissariati della città, selezionava gli "indesiderabili" in base all'aspetto: chi aveva l'aria del cattolico (più o meno integralista, tanto meglio se integralista) passava i controlli, chi aveva un abbigliamento non troppo convenzionale veniva immediatamente pescato e caricato su una corriera allestita appositamente. Il semplice fatto di avere in mano, o nella borsa, o in mezzo a un libro, un volantino che esprimesse dubbi rispetto all'utilità dell'omaggio a Woityla, diventava il pretesto per il fermo, senza che quest'ultimo fosse giustificato da alcuna azione, alcun gesto esplicito da parte dei dissenzienti. Sembra addirittura che due gay, i quali avevano come unica colpa quella di passeggiare mano nella mano dalle parti di place St. Michel (quindi neanche troppo vicino al luogo della cerimonia, ma in ogni caso riconoscibili in quanto omosessuali), siano stati fermati. Questo fatto, se confermato, sarebbe di una gravità assoluta.
Io stesso ho potuto constatare, recandomi di persona sul luogo, che il dispiegamento delle forze dell'ordine era molto ampio, e che era presente una notevole quantità (ovviamente non precisabile) di agenti dei servizi segreti e poliziotti in borghese, che si mescolavano al pubblico e ne ascoltavano le conversazioni o addirittura sequestravano le sequenze filmate durante l'azione di protesta contro la cerimonia.
È vero che vivo in una Repubblica, quella francese, dove vige una netta separazione fra lo Stato e le religioni. Anzi, è proprio in nome di quella separazione che il cosiddetto velo islamico è stato bandito dalle aule scolastiche in quanto segno di ostentazione religiosa. Tralasciando dubbi e altre considerazioni su questo punto, ci si chiede soltanto perché, quando si tratta del culto cattolico, e solo in questo caso, la commistione fra la politica e la religione non è più ragione di scandalo, anzi, è percepita come necessaria a fini elettorali. Insomma, pensavo potesse accadere in pochi altri posti oltre che in Italia, certamente non in Francia. Mi sono dovuto ricredere. E che sia proprio un sindaco di sinistra, apparentemente ligio al valore della laicità, socialista e per di più omosessuale, ad esaltare una figura tanto contestabile quanto quella di Giovanni Paolo II, mi sembra preoccupante.
In ogni caso, la protesta di domenica, benché repressa in pochissimo tempo, ha avuto il merito di mostrare che il consenso non è affatto unanime e ha costretto Delanoë a giustificare il suo gesto. Il sindaco, infatti, ha partecipato ieri sera a una trasmissione televisiva su Canal+, sostenendo di non aver condiviso le posizioni di Giovanni Paolo II riguardo i diritti delle donne e degli omosessuali, o sulla questione dell'Aids, ma di aver apprezzato i suoi sforzi per il dialogo fra le religioni e per la pace. Di fatto, quindi, ha relegato donne, persone glbt e sieropositivi, al secondo posto, dietro quelle che evidentemente crede siano le vere priorità.
I tempi sono duri anche su questo versante delle Alpi.

Foto: Staou.

04 settembre 2006

Omofobia: Delanoë Papa subito!

Giornata di esaltazione dell’omofobia e della repressione ieri a Parigi. La cerimonia organizzata dal comune per intitolare a Giovanni Paolo II la piazza antistante la chiesa di Notre-Dame, è stata duramente contestata da alcune associazioni gay, lesbiche, bisessuali e transessuali. Circa ottanta le persone fermate.
Il punto di partenza di questa triste vicenda è la proposta, presentata al consiglio comunale del 12 luglio scorso dal gruppo dell’UMP (partito di destra, attualmente all’opposizione), di dedicare la piazza che si trova davanti alla celebre cattedrale parigina al predecessore di Papa Ratzi. Verdi, comunisti e altri due partiti della maggioranza (MRC e PRG) si sono immediatamente dichiarati contrari.
Durante il dibattito, infatti, più di un consigliere ha ricordato le molte ombre del pontificato di Giovanni Paolo II: la vicinanza sua e di alcuni suoi collaboratori alle dittature di destra come quella di Pinochet, la beatificazione di antisemiti (Kolb), di nazisti (Degrelle), del cardinale milanese Schuster che aveva appoggiato la guerra coloniale mussoliniana contro l’Etiopia o di sostenitori della dittatura franchista come Escrivà De Balaguer. Per non parlare poi delle sue posizioni contro l’omosessualità, l’aborto, la contraccezione e l’uso del preservativo come forma di prevenzione dell’Aids.
Tuttavia è stato proprio il sindaco di Parigi, Bertrand Delanoë, socialista e gay, a pronunciarsi favorevolmente alla richiesta dell’UMP e a far approvare così, con un’alleanza inedita tra socialisti e destra, una delibera sulla questione. Nella sua scelta, evidentemente, più della contraddizione tra il suo stile di vita e le prediche papali, ha contato una certa attenzione verso gli umori del mondo cattolico, in vista delle prossime elezioni comunali previste per il 2007.
Ieri pomeriggio, dunque, sul Parvis di Notre-Dame si sono date appuntamento alcune autorità politiche e religiose, nonché tremila cittadini e altrettanti poliziotti, ligi, questi ultimi, nella verifica di tutto ciò che potesse contenere materiale sovversivo: borsette, zaini, ma anche semplici giornali.
La cerimonia è stata preceduta da una manifestazione di protesta indetta dai verdi e da alcune associazioni glbt come le Panthères Roses e ActUp. Nel loro duro comunicato i manifestanti hanno ricordato il ruolo di Giovanni Paolo II nel consolidamento di “sessismo, misoginia, omofobia, lesbofobia e transfobia”. Perché il messaggio potesse arrivare direttamente a Delanoë, alcuni di loro, una cinquantina, hanno tentato di avvicinarsi il più possibile al luogo dove alle 15 sarebbe cominciata la cerimonia. Sono stati identificati dalla polizia e portati al commissariato, ancor prima che potessero mettere piede nella piazza.
Una decina di Pantere Rosa sono invece riuscite a eludere i controlli della polizia e a mescolarsi al pubblico che ascoltava il discorso del sindaco. E alle 15 e 30 lo hanno interrotto, scandendo per breve tempo i loro slogan (“Parigi protegge l’omofobia, Parigi protegge il Vaticano”). Sono stati immediatamente trascinati lontano dalla piazza dalle forze dell’ordine e arrestati. Riprendendo a parlare dal palco delle autorità, Delanoë ha reagito affermando: “Questo omaggio ha forse urtato alcune sensibilità, ma la laicità, la separazione tra Stato e Chiesa, alle quali sono profondamente attaccato, non implicano per niente l’ignoranza reciproca”. Cosa abbia voluto dire esattamente, non si sa.
Tutte le persone fermate ieri sono state rilasciate in serata, verso le 19 e 30. Resta la constatazione amara di quanto sia difficile manifestare oggi, nella capitale della laicissima Francia, il proprio dissenso all’esaltazione di un personaggio che – come ricordano i gruppi glbt – è stato il simbolo, “per molte e molti di noi, di malattia, morte, discriminazione e disuguaglianza”. “Che la gerarchia cattolica si ostini a condannare l’uso del preservativo,” – sostiene ActUp in un comunicato diffuso nella serata di ieri – “che menzogne e dogmi facciano precipitare i suoi adepti nella vergogna, nella sofferenza e nella morte, è una cosa. Altra cosa è che un rappresentante dello stato, apparentemente progressista e per di più bersaglio egli stesso di affermazioni discriminatorie, insozzi la propria città con targhe in onore di assassini”.

Foto: Staou.